Cosa rischia l’Italia nel 2024 dopo l’addio alla Via della Seta: calerà l’export in Cina per lusso e agroalimentare

Cosa accadrà alle imprese italiane che hanno stretto accordi con Pechino? Milioni di lavoratori a rischio dopo l’addio di Roma alla Belt and Road Initiative

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Federico Casanova

Giornalista politico-economico

Giornalista professionista specializzato in tematiche politiche, economiche e di cronaca giudiziaria. Organizza eventi, presentazioni e rassegne di incontri in tutta Italia.

Per una lunga serie di motivi che ci apprestiamo ad elencare in maniera sintetica, il 2024 appena iniziato sarà un anno cruciale per l’Italia e per tutte le grandi potenze del mondo. Innanzitutto, il nostro Paese sarà chiamato ad una sfida molto importante, quella di presiedere il G7 in un periodo di enorme instabilità internazionale, segnato dal protrarsi del conflitto in corso tra Russia e Ucraina e dall’escalation di violenza che sta interessando la regione del Medio Oriente. Com’è facile intuire, le pretese diametralmente opposte di Volodymyr Zelenski e di Vladimir Putin, così come di Benjamin Netanyahu e dei leader palestinesi, finiranno puntualmente sui tavoli delle grandi organizzazioni globali, dalla Nato all’ONU, dai BRICS all’Unione per il Mediterraneo.

Sarà molto complicato individuare soluzioni che possano accontentare tutti gli attori in gioco, mentre milioni di persone continuano a vivere in una condizione di morte e violenza, sotto i bombardamenti e in mezzo alle sparatorie. Per limitare i danni e attenuare questo clima da incubo sarà fondamentale stringere partnership e alleanze con tutti, nessuno escluso. A cominciare dalla Cina, la grande “mucca nel corridoio” (mutuando un’espressione che viene utilizzata per parlare di un enorme problema di cui nessuno vuole parlare, ma che è sotto gli occhi di tutti). Perché il Dragone – con la sua Via della Seta, che il nostro governo ha voluto abbandonare giusto da un paio di mesi – promette di monopolizzare l’attenzione su tutto i fronti più caldi.

Via della Seta, l’Italia dice addio al Memorandum del 2019: cosa sta accadendo nei rapporti tra Roma e Pechino

Per approfondire il ruolo che l’Italia potrà (e dovrà) avere nello scacchiere internazionale occorre tornare allo scorso novembre 2023, quando Roma ha annunciato ufficialmente la volontà di non rinnovare la propria adesione alla Belt and Road Initiative (BRI), il progetto faraonico e multimilionario ideato dal leader cinese Xi Jinping per estendere l’influenza di Pechino su tutti i continenti del globo. Un piano di rafforzamento complessivo delle alleanze che, ormai cinque anni fa (era il marzo del 2019), aveva sedotto Giuseppe Conte, a quei tempi presidente del Consiglio in carica durante il primo dei suoi due governi, di cui faceva parte anche la Lega di Matteo Salvini.

Tutti ricordiamo Luigi Di Maio (che in quell’esecutivo ricopriva l’incarico di ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali) e Enzo Moavero Milanesi (profilo indipendente, scelto per fare il ministro degli Esteri) accogliere all’aeroporto di Ciampino la delegazione cinese giunta in Italia per siglare il Memorandum di adesione alla Via della Seta. Un passaggio che fece infuriare gli americani, mentre i nostri più stretti partner europei – a cominciare da Francia e Germania – si limitavano a stringere qualche accordo sul piano economico e commerciale.

Oggi, tutto questo non esiste più. Dopo settimane di trattative e infiniti ping pong diplomatici, prima della fine del 2023 il governo di centrodestra ha prodotto una nota verbale, l’ha corredata con diverse promesse per il rafforzamento di quella che viene definita “un’amicizia strategica” e l’ha consegnata alle autorità cinesi. L’Italia esce dalla BRI. E lo fa proprio alla vigilia dei dodici mesi in cui guiderà il G7, dopo esserne stato l’unico membro ad intavolare l’accordo con Pechino. Rimane comunque l’impegno – ribadito dalla stessa Giorgia Meloni – a rilanciare una partnership mai sbocciata del tutto. Però, il dato di fatto è che la Via della Seta, per il nostro Paese, non esiste più.

La Via della Seta ha portato dei benefici solo alla Cina o anche all’Italia? I numeri del Memorandum

Mentre cresce la curiosità attorno al viaggio che Sergio Mattarella compirà nel 2024 proprio in Cina (un appuntamento a cui il Capo dello Stato si sta già preparando assieme ai suoi più stretti collaboratori al Quirinale), possiamo fare un bilancio più o meno sommario dei benefici – reali o rimasti nel campo delle ipotesi – che la Belt and Road Initiative ha prodotto per il nostro sistema Paese. La pietra miliare su cui si sarebbe dovuta sviluppare la nostra adesione era quella delle grandi opere da realizzare in Paesi terzi, in particolare in quei territori dell’Africa in cui sono meno presenti i conflitti tra le diverse fazioni locali.

Inoltre, Pechino avrebbe dovuto investire ingenti quantità di denaro nei nostri porti, a partire da quelli di Venezia e Trieste. Ma, dati alla mano, non se n’è fatto nulla. E così, ben presto, l’esecutivo gialloverde (seguito poi anche da quello giallorosso) decise di spostare l’attenzione sulla bilancia commerciale con la Cina, incrementando l’interscambio tra i due Stati. Cosa realmente accaduta, ma con un netto vantaggio a favore di Pechino: infatti, se è vero che le nostre esportazioni in Asia sono cresciute di 4 miliardi di euro dal 2019 al 2022, quelle cinesi in Italia sono balzate da 35 a 66 miliardi di euro nello stesso arco temporale.

Cosa accadrà alle imprese italiane nel 2024 dopo l’addio di Roma alla Via della Seta

È inutile nascondere come, dalle parti di Palazzo Chigi, ci sia un timore crescente in merito alle possibili ripercussioni che ci potrebbero essere d’ora in avanti sulle relazioni con la Cina. Il problema principale riguarda le oltre 1.600 imprese italiane che operano nel territorio nazionale del Dragone. Il settore commerciale più esposto a possibili stravolgimenti potrebbe essere quello del lusso: da un lato, le nostre multinazionali che rischiano di trovare crescenti difficoltà per spedire in Oriente i propri prodotti; dall’altro, un calo di appeal del comparto per gli investitori cinesi, sempre più numerosi (ma soprattutto con una mole crescente di denaro da investire all’estero).

In ballo ci sono migliaia di posti di lavoro, anche perché le produzioni che il governo Conte scelse di inserire nel paniere della Via della Seta sono molte di più di quelle che si potrebbe pensare. Solo per fare due esempi divenuti iconici tra gli addetti ai lavori, per fare peso si decise di citare nel Memorandum anche le arance sanguinelle (vero e proprio fiore all’occhiello della produzione agricola siciliana, specialmente nelle province di Enna, Catania e Siracusa) e il riso per la preparazione del risotto, che in Italia viene coltivato soprattutto in Pianura Padana, nella fascia che arriva fino alle Prealpi di Lombardia e Piemonte.