Lo stipendio del marito o della moglie fa parte della comunione dei beni?

Non poche persone sposate si chiedono quali diritti hanno sullo stipendio del marito o della moglie. Le regole previste dalla legge e i limiti da non superare

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Le regole in materia di stipendio, pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e quant’altro sono stabilite da leggi e contratti collettivi. Non sempre tra i lavoratori c’è piena consapevolezza dei loro diritti e doveri e – tra i quesiti tipici in materia di lavoro – ce n’è uno in particolare che riguarda le coppie unite in matrimonio, che merita qui di essere chiarito: lo stipendio o gli incassi comunque derivanti dalla propria attività, in regime di comunione di beni debbono entrare nella cassa della famiglia, oppure possono essere trattenuti dal marito o dalla moglie per sé ed essere rivolti esclusivamente a soddisfare le esigenze e i bisogni personali?

Vediamo insieme la risposta, tenuto conto del fatto che a seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975, il regime patrimoniale delle coppie unite in matrimonio è quello della comunione dei beni, salvo che marito e moglie optino per la separazione.

Lo stipendio non è in comunione dei beni, ecco perché

Posto che la comunione dei beni crea un patrimonio comune in cui rientrano gli aumenti di ricchezza che ognuno dei due coniugi ottiene, anche per effetto della propria attività lavorativa, commerciale o imprenditoriale, la risposta di cui alla domanda in apertura è negativa – ma con alcune importanti precisazioni da fare.

Lo stipendio non rientra nella comunione dei beni dei coniugi lavoratori, infatti se da un lato il Codice Civile include in quest’ultima i beni – mobili e immobili – comprati dopo il matrimonio (esclusi quelli strettamente personali come i beni già appartenenti ad uno dei due prima dell’unione o i beni necessari per lo svolgimento della professione), dall’altro per quanto riguarda lo stipendio del coniuge il meccanismo da seguire è specifico ed è quello che segue:

  • si applica la comunione residuale (o in latino ‘de residuo’) o differita;
  • in costanza di matrimonio il coniuge che non è titolare e assegnatario della retribuzione, non può vantare alcun diritto su esso (né pretenderne la metà).

Come indicato dall’art. 177 comma 3 del Codice Civile, la comunione residuale include:

i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati.

Il legislatore ha mirato da un lato a lasciare al singolo coniuge la disponibilità dei suoi redditi personali e, dall’altro, ha inteso garantire che, se e quando la comunione si scioglie, i risparmi siano vengano divisi in modo equo e paritario. Essi entreranno a far parte del patrimonio da dividere.

I chiarimenti della Cassazione

Oltre al dato della legge c’è un’ordinanza della Cassazione, la n. 3767 del 2021, che ha chiarito ulteriormente il rapporto tra stipendio del coniuge e comunione dei beni in matrimonio, considerando che:

la comunione de residuo si realizza al momento dello scioglimento della comunione limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi.

Questo giudice ha al contempo rimarcato che sono da escludersi dalla comunione dei beni i proventi dell’attività separata effettuata da ciascuno dei coniugi (come lo stipendio) e consumati – anche per fini personali – in data anteriore allo scioglimento della comunione.

Il bilanciamento con i doveri di assistenza reciproca

Le regole appena viste sono però controbilanciate dai doveri di assistenza reciproca – di cui al Codice Civile. In sostanza, chi guadagna di più e ottiene più proventi e soldi dalla propria attività di lavoro (dipendente, autonomo, imprenditoriale ecc.) deve prendersi cura del partner e venire incontro alle esigenze della prole.

Questo non vuol dire condividere o porre in comunione lo stipendio o il conto corrente – abbiamo detto che non ci applica la comunione ‘tout court’ in costanza di matrimonio – ma significa contribuire alle spese necessarie alla famiglia, ai figli e al mantenimento del nucleo familiare – ovviamente in rapporto alle proprie effettive capacità economiche.

In altre parole, ogni coniuge lavoratore o lavoratrice dovrà valutare:

  • quale frazione del proprio reddito rivolgere al consumo della famiglia o all’acquisto di beni che, invece, costituiscono porzione della comunione dei beni (ad es. l’abitazione o i mobili);
  • quale frazione riservare invece alle proprie esigenze personali.

Di fatto il destinatario dello stipendio potrà autonomamente spendere o risparmiare i proventi, ma soltanto dopo aver messo in pratica i doveri di contribuzione e assistenza alla famiglia.

In concreto, se al momento dello scioglimento del matrimonio il marito o la moglie ha speso tutto lo stipendio guadagnato, l’altro o l’altra potrà pretendere le somme (comunione residuale) soltanto se il coniuge – durante il matrimonio – ha speso tutto senza contribuire ai bisogni della famiglia. Di ciò dovrà essere data prova in una eventuale causa in tribunale.

Il diritto al versamento di metà degli stipendi

In linea generale la legge stabilisce che il diritto di pretendere la metà di quello stipendio scatta se e nel momento in cui il legame matrimoniale si interrompe. Sono i casi dello scioglimento del vincolo e della morte del marito o della moglie e, in tali circostanze, per legge sarà possibile pretendere – e ottenere – la metà dei soldi costituenti il reddito di lavoro (autonomo o dipendente) dell’altro coniuge. Abbiamo detto infatti che la comunione residuale si attua con l’equa divisione delle ricchezze.

Interessante notare che tale diritto sussiste e può essere fatto valere, anche se i denari dello stipendio sono stati già depositati in banca e confusi con altre somme. Ma, in ogni caso, la divisione del salario potrà essere rivendicata esclusivamente se e quando la comunione dei beni verrà meno.

Il caso della separazione

Per capire meglio il meccanismo vediamo più da vicino l’esempio della separazione della coppia sposata. Emblematica è infatti la situazione che segue:

  • una coppia si separa e il marito ha un conto in banca con depositati 100mila euro, ossia la somma di tutti gli stipendi (o gli incassi della propria attività commerciale o di lavoro autonomo) ottenuti dal matrimonio alla data di scioglimento del legame;
  • per legge, su tale denaro l’altro coniuge non aveva finora potuto rivendicare alcun diritto, ora però tale somma complessiva va divisa al 50% tra i due (comunione residuale), a patto che il c/c non sia stato svuotato in precedenza;
  • nell’ipotesi il conto corrente sia ormai di fatto azzerato perché magari il coniuge titolare – vedendo all’orizzonte una insanabile crisi della coppia – ha speso tutta la giacenza per comprare beni personali, l’altro coniuge non potrà avere alcunché di quei soldi ormai utilizzati.

Quest’ultimo punto merita un ulteriore chiarimento: l’altro coniuge non potrà accampare diritti o pretendere la vendita o la divisione degli oggetti comprati con i soldi del conto corrente. Per legge, quanto comprato dal coniuge per le necessità proprie (abbigliamento, strumenti per il lavoro ecc.) non è incluso nella comunione. Ecco perché ci sono avvocati che suggeriscono di spendere il denaro nel conto prima dello scioglimento dell’unione.

Il caso del decesso di un coniuge

L’altro esempio classico è quello della coppia sposata in cui marito o moglie viene a mancare per un qualsiasi motivo (incidente sul lavoro, malattia ecc.). Chi muore lascia un conto corrente, di cui era intestatario, del valore ad es. di 50mila euro. In queste circostanze, il c/c si divide al 50% in questo modo:

  • 25mila euro divengono di proprietà del coniuge superstite (50% della comunione residuale);
  • gli altri 25mila euro sono suddivisi tra tutti gli eredi, incluso però anche il coniuge superstite.

Quindi quest’ultimo di fatto incasserà una somma maggiore del 50% del totale del conto corrente del coniuge defunto.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo visto che, per legge, i guadagni dell’attività del coniuge sono inglobati nella comunione, aumentando il patrimonio comune della coppia, soltanto se sussistono al momento dello scioglimento del matrimonio. Si parla appunto di comunione residuale, una sorta di comunione ‘latente’ e differita, e che si manifesta soltanto in ipotesi di separazione dei coniugi o di morte di uno dei due.

I proventi guadagnati dal coniuge per il suo lavoro andranno divisi in ipotesi di scioglimento, ma durante il matrimonio ciascuno potrà disporne come preferisce, a patto di aver soddisfatto i bisogni del coniuge e dei figli.

In costanza di matrimonio il marito o la moglie non hanno diritto ad esigere – ed ottenere – dal marito il bancomat o carta di debito per effettuare il prelievo della metà dei soldi guadagnati in un mese. Sarà piuttosto un accordo discrezionale delle parti a stabilire ciò, ma non c’è alcun obbligo del titolare del conto di lasciare metà dello stipendio al coniuge. E questo al di là dell’intestazione del conto corrente, sempre in capo a chi ha sottoscritto il contratto con la banca.

Tali risparmi accumulati da ciascun coniuge grazie al lavoro non cadono automaticamente in comunione, a prescindere dal modo in cui sono stati impiegati o investiti, ma la somma presente nel momento in cui la comunione si scioglie sarà parte del patrimonio da dividere.