Da cosa è composta l’isola di rifiuti del Pacifico

La Great Pacific Garbage Patch si trova nell'Oceano tra Hawaii, Giappone e California: che cos'è e come è nata

Ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica invadono le acque di tutto il mondo e capita spesso che i rifiuti si raggruppino in specifiche zone a causa delle correnti.

Nella zona dell’Oceano Pacifico che si estende tra California e Arcipelago Hawaiano galleggia la più grande chiazza di rifiuti del pianeta. Si tratta della Great Pacific Garbage Patch ed è stata “scoperta” nel 1997 dal velista Charles Moore. La sua esistenza era stata predetta dagli esperti, ma fu Moore a scoprirla durante una gara in barca dalle Hawaii alla California, quando attraversò il North Pacific Subtropical Gyre. Durante la gara notò milioni di pezzi di plastica circondare la nave. Il Great Pacific Garbage Patch comprende anche il Wester Garbage Patch situato nei pressi del Giappone, e l’Eastern Garbage Patch, individuato tra le Hawaii e la California.

Essendo molto vasta, è diventata ormai una vera e propria località, grazie anche all’idea di due intraprendenti pubblicitari, che hanno depositato la richiesta di riconoscimento con il nome di Trash Isles (isola dei rifiuti). Non contenti, hanno addirittura nominato cittadino dell’isola l’ex vice presidente statunitense Al Gore, da sempre impegnato nella lotta contro il cambiamento climatico e l’inquinamento del pianeta.

I detriti che compongono l’isola dei rifiuti si formano nella North Pacific Subtropical Convergence Zone, dove le acque calde del Sud Pacifico si incontrano con quelle fredde provenienti dal Circolo Polare Artico. Qui le correnti portano i detriti e li fanno riunire tra loro. L’azione del Vortice Subtropicale del Pacifico, o grande corrente oceanica a forma di vortice, mantiene poi insieme i rifiuti, creando un’area di quasi 20 milioni di km quadrati di estensione.

Al contrario di quel che si può pensare, solamente l’8% della superficie galleggiante della patch risulta essere di materiale sintetico di consumo, come la plastica, ma è per intero composta da materiali non biodegradabili. La maggior parte è costituita da attrezzatura da pesca abbandonata. Boyan Slat, un giovane olandese, ha fondato un’organizzazione chiamata Ocean Cleanup con il solo scopo di ripulire l’area, al “misero” costo di 32 milioni di dollari. Tramite uno studio affidato ad un’equipe di scienziati, Slat ha scoperto che oltre il 46% dei rifiuti della Patch è costituito da reti da pesca, corde, distanziatori per allevamento di ostriche, trappole e ceste varie, di cui almeno 1/5 proveniente dallo tsunami che devastò il Giappone nel 2011.

Nelle ghost nets si impigliano ogni anno almeno 100 mila animali, tra cui foche e balene. I rifiuti che formano l’isola sembrano provenire da 12 diverse nazioni e avere almeno 9 idiomi distinti, stando alle etichette ritrovate. Nonostante la bassa percentuale, anche i rifiuti di plastica risultano pericolosi, in quanto si frammentano e mettono in pericolo l’ecosistema marino. Le microplastiche infatti vengono ingerite da plancton e fauna marina. Secondo Greenpeace, sono almeno 170 gli animali marini che ingeriscono frammenti plastici, subendo lesioni o intossicazioni. In più, finendo sulle nostre tavole, mettono in pericolo anche la salute dell’uomo.

I frammenti di plastica ricoprono la superficie del mare, rendendola secondo il National Geographic simile ad una “torbida zuppa”. I dati non sono confortanti: secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, Unep, il Great Pacific Garbage Patch starebbe crescendo così in fretta da poter essere presto visibile dallo spazio.

Se la superficie accumula detriti, anche i fondali non si trovano in una situazione migliore. Il 70% dei detriti marini infatti precipitano e ricoprono il fondo dell’oceano. Secondo l’Unep, anche le plastiche biodegradabili corrono il rischio di non decomporsi sul fondo, in quanto qui non arriva la luce del sole e la temperatura è molto più bassa rispetto a quella necessaria per avviare la decomposizione.

Molti Stati si stanno muovendo per cercare di invertire la rotta: ultima in ordine di tempo è l’Unione Europea che ha proposto una normativa stringente sull’uso della plastica e sullo smaltimento dei rifiuti. Non sappiamo quando vedremo i risultati di queste nuove norme, ma una cosa è certa: la Great Pacific Garbage Patch ci dice che il tempo stringe. Sempre di più.