L’Europa è pronta a rivedere i propri arsenali, Trump ordina agli alleati di staccare assegni più pesanti per la difesa e l’Ucraina continua a essere la moneta di scambio delle grandi manovre diplomatiche. La Conferenza di Monaco 2025 inizia oggi (e durerà fino al 16 febbraio) con il solito corredo di strette di mano pubbliche e trattative segrete, mentre Washington cerca di dirigere il dialogo tra Bruxelles e Kiev, come se fosse cosa sua.
Nel frattempo, Giorgia Meloni decide di restare fuori dal gioco: saltare Monaco significa evitare passi falsi su un dossier che potrebbe far implodere la sua maggioranza e tenersi alla larga da una trattativa che promette più spine che rose. L’assenza dell’Italia in questa partita di potere europeo e transatlantico sarà notata, eccome.
Indice
I protagonisti e gli interventi previsti
L’inaugurazione sarà gestita dal presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier, mentre Christoph Heusgen, gran cerimoniere della Conferenza, avrà il compito di orchestrare il solito balletto di dichiarazioni e retroscena.
Sul palco principale si alterneranno volti noti: il vicepresidente degli Stati Uniti James David Vance e il segretario di Stato Marco Rubio, volti della seconda stagione trumpiana. A fare da contropartita europea, il segretario generale della Nato Mark Rutte, incaricato di ricordare a tutti che l’Alleanza Atlantica esiste ancora e intende farsi rispettare.
Per l’Italia, presente il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, che avrà il compito di fare il bello e il cattivo tempo, e forse, di dimostrare che Roma è ancora seduta al tavolo che conta, anche senza la premier.
Giorgia Meloni e la scelta di non partecipare
Giorgia Meloni ha deciso di saltare la Conferenza di Monaco, come chi sa che il clima non è dei migliori e preferisce restare alla larga dai fuochi incrociati. Un San Valentino senza romanticismi, mentre a Monaco ci si scambiano tutt’altro che dichiarazioni d’amore.
La presidente del Consiglio ha scelto di non infilarsi in un negoziato ucraino che potrebbe trasformarsi in una trappola e di non impelagarsi in discussioni che potrebbero far tremare la sua coalizione.
Da Trump arrivano pressioni per un maggiore impegno sulla difesa, l’Europa si riscopre falco e gli americani vogliono condurre il gioco anche sul dialogo con Kiev. Meloni, da stratega, resta a guardare: meglio un’assenza strategica che una presenza scomoda.
Temi e strategie delle prime giornate
Le sessioni inaugurali si concentreranno attorno ai grandi equilibri mondiali con la retorica della governance globale, mentre si parlerà di stabilità democratica e sicurezza climatica giusto per riempire le scalette.
Il vero gioco inizierà il giorno successivo, quando il focus si sposterà sulle relazioni transatlantiche e sulle fratture aperte nel sistema internazionale. Al centro del tavolo resta l’Ucraina, che ancora una volta diventa il terreno di scontro tra chi comanda davvero.
Donald Trump e Vladimir Putin hanno già iniziato il valzer diplomatico, con Washington che cerca di incassare dividendi e Mosca che osserva compiaciuta. Zelensky è stato avvisato a giochi fatti, mentre in Europa si percepisce il brivido di un’intesa che potrebbe materializzarsi senza il coinvolgimento diretto di Kiev e del vecchio continente stesso.
Trump annuncia colloqui sull’Ucraina, ma Kiev smentisce
Trump, con il suo solito piglio da negoziatore in chief, ha annunciato che a Monaco andrà in scena un summit tra emissari di Russia, Ucraina e Stati Uniti per discutere la fine del conflitto. Un dettaglio non trascurabile: Kiev ha subito precisato che non parteciperà ad alcun colloquio con funzionari russi.
“Voglio che quel bagno di sangue in Ucraina si fermi. È troppo presto per dire come andranno le trattative”, ha dichiarato furbamente Trump. Il leader americano non ha risposto a chi gli chiedeva a cosa potrebbe rinunciare la Russia in un accordo: “Ha conquistato una buona fetta di territorio. Forse rinuncerà a molto, forse no. Il negoziato è appena iniziato ed è troppo presto”. Il tutto, però, senza fornire una sola garanzia. Il solito schema: Trump detta i tempi, Putin ascolta e Zelensky cerca di non rimanere stritolato nella partita tra i due.
Reazioni europee e tensioni sulla leadership nei negoziati
Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha gettato benzina sul fuoco, rendendo ancora più tesi i rapporti tra Kiev e i partner europei, già infastiditi dalla mossa di Trump.
La responsabile della politica estera dell’Ue, Kaja Kallas, ha liquidato la trattativa diretta tra Mosca e Washington come “un affare sporco” che non porterà da nessuna parte. Peskov, dal canto suo, ha tagliato corto: “gli europei dovranno probabilmente parlare con Washington per chiedere un posto al tavolo”. Trump, imperturbabile, ha definito le telefonate con Putin e Zelensky delle “belle chiacchierate”. Un termine che, viste le circostanze, suona come una voluta ammissione di leggerezza.
L’Unione Europea si trova, ancora una volta, nel mezzo di una partita che si gioca sopra la sua testa. Da un lato, la necessità di aumentare la spesa militare per tenere il passo con le richieste di Trump, dall’altro il rischio di essere esclusa dalle trattative tra Washington, Mosca e Kiev. Bruxelles tenta di farsi valere, ma la sua voce si perde tra le dichiarazioni di chi ha un arsenale più pesante e meno scrupoli diplomatici.
Mentre gli Stati Uniti pensano solo di stringere accordi con la Russia sulla gestione della guerra, l’Europa si dibatte tra il desiderio di autonomia strategica e la triste consapevolezza di dover ancora dipendere dall’ombrello statunitense.
Il piano di pace e la proposta di una forza multinazionale
Dietro le porte chiuse di Monaco si consuma l’ennesimo tentativo di riscrivere la guerra in Ucraina. Trump, da grande affabulatore, ha già imbastito il racconto di una pace possibile con Putin, un’idea che, come abbiamo detto, a Kiev fa l’effetto di un coltello affilato, perché di fatto sancirebbe la vittoria della Russia. La presenza di Keith Kellogg, inviato speciale per il conflitto, è il segnale che gli Stati Uniti vogliono tenere il piede in due staffe: dialogare con Mosca e rassicurare Zelensky, senza sbilanciarsi troppo.
Si ragiona anche su un’eventuale forza multinazionale europea per sorvegliare un ipotetico armistizio. Un’operazione che avrebbe bisogno della benedizione americana e della Nato per non essere un castello di carte, ma che Washington ancora non avalla apertamente. Mosca, dal canto suo, alza il muro: di truppe straniere lungo i suoi nuovi confini non vuole nemmeno sentir parlare.