Giorgia Meloni, prima di partire per il vertice di Washington, ha confermato l’intenzione del suo governo di aumentare la spesa militare. Attualmente, è previsto che questa raggiunga l’1,44% del Pil nel 2025, ma la leader punta a modificare questa percentuale, in aumento, portandola all’1,6%.
Questa decisione arriva in un contesto di politiche di bilancio controverse, caratterizzate da tagli significativi in altri settori. Recentemente sono stati tagliati fondi cruciali per il Sud e per i servizi sociali essenziali, come gli asili nido, nonostante le promesse di sostegno alla maternità fatte, soprattutto in campagna elettorale.
La combinazione di queste scelte politiche ha suscitato polemiche, poiché sembra contraddire le dichiarazioni del Governo sulla priorità data al sostegno alle famiglie e allo sviluppo del Meridione. Mentre da un lato si incrementano le spese militari, dall’altro si riducono i fondi per settori cruciali per il benessere sociale e lo sviluppo economico di una fetta d’Italia.
Giorgia Meloni aumenta la spesa militare di 3 miliardi
Stando a quello che è emerso, l’Italia sta considerando un aumento significativo delle spese per la difesa con l’obiettivo di sollevare l’attenzione internazionale e rafforzare il proprio impegno all’interno dell’Alleanza Atlantica.
Il dibattito politico si è catalizzato sulla prossima visita di Giorgia Meloni a Washington, dove la leader italiana è attesa per un vertice importante, proprio in occasione dei 75 anni della Nato.
Un elemento cruciale delle discussioni sarà il rapporto tra le spese militari e il Prodotto Interno Lordo (Pil) dell’Italia, che dovrebbe raggiungere l’1,44% nel 2025. Tuttavia, il governo italiano non intende fermarsi qui e, come accennato, mira ad aumentare il suo impegno finanziario, portando questa percentuale all’1,6%, arrivando a dire circa 3 miliardi di euro.
Meloni sostiene che tali aumenti sono parte di una strategia più ampia per consolidare la posizione dell’Italia all’interno dell’Alleanza, per rafforzare il ruolo e l’influenza dell’Italia nella Nato e nelle relazioni con gli alleati occidentali.
Tutto questo avviene però in uno scenario particolare, con gli occhi di molti puntati (giustamente) sul modo in cui vengono gestite le risorse, soprattutto a seguito dell’approvazione della Legge sull’Autonomia Differenziata, che rischia seriamente di penalizzare il Mezzogiorno, che già sta ricevendo meno in termini di servizi essenziali.
La sensazione è che ingenti somme di denaro potrebbero – e dovrebbero – essere investite in settori come l’istruzione, la sanità e le infrastrutture, soprattutto nelle regioni più svantaggiate del Sud Italia, per migliorare la qualità della vita e promuovere l’uguaglianza sociale ed economica.
I soldi tolti al Sud
Proprio due mesi fa, a inizio maggio, il governo Meloni è finito al centro di una forte polemica a causa dei tagli ai fondi destinati al Mezzogiorno. Nonostante le promesse di nuovi stanziamenti per le regioni meridionali, il decreto Coesione, firmato dal ministro Raffaele Fitto, ha cancellato oltre 3,5 miliardi di euro previsti per infrastrutture vitali come strade, aeroporti e acquedotti, nonché per migliorare i servizi scolastici e sanitari nel Sud.
La premier, ha infatti dichiarato pubblicamente di aver istituito un fondo perequativo infrastrutturale per il Mezzogiorno, che teoricamente avrebbe dovuto supportare il Sud Italia con investimenti infrastrutturali. Il fondo però già c’era (istituito dalla Legge 42/2009), quello che è cambiato (oltre il nome) è la dotazione finanziaria. Mentre il precedente Fondo perequativo infrastrutturale aveva un budget di 4,6 miliardi di euro, il nuovo fondo ha subito una riduzione di 3,5 miliardi di euro attraverso la Legge di Bilancio 2024.
Quindi di fatto c’è un nuovo fondo ma è stato creato privandolo delle risorse necessarie e ridotto drasticamente rispetto al precedente. Invece di avere i 4,6 miliardi di euro previsti inizialmente, il nuovo fondo dispone di soli 940 milioni di euro per il prossimo decennio, una cifra insufficiente per affrontare le esigenze infrastrutturali del Mezzogiorno.
E le preoccupazioni su come allocare le risorse pubbliche e sul sostegno ai servizi essenziali per le famiglie e lo sviluppo regionale non si possono mettere a tacere, visto anche come i fondi del Pnrr per il sostegno alla maternità sono stati rivisti.
Meno soldi anche per asili e maternità
Il processo di revisione dei programmi di spesa pubblica e di ridistribuzione delle risorse finanziarie ha visto proprio recentemente il Governo e il Ministero degli Affari europei, guidato da Raffaele Fitto, intervenire con un taglio dei fondi destinati agli asili nido e alle scuole dell’infanzia, che ha sollevato nuove e gravi preoccupazioni sul futuro della maternità e della conciliazione vita-lavoro in Italia.
Il Governo, tramite una serie di revisioni al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), ha infatti ridotto drasticamente il numero di nuovi posti che erano stati inizialmente previsti per essere realizzati entro il 2026.
Inizialmente il Pnrr aveva stanziato 4,6 miliardi di euro per la creazione di ben 264.480 nuovi posti di lavoro (come si legge in questo documento), con un investimento ambizioso finalizzato a migliorare significativamente l’accesso ai servizi educativi per i bambini e a sostenere le famiglie italiane.
Tuttavia, con un brusco ridimensionamento dei finanziamenti, ora si prevede di realizzare solo 150.480 posti (Decreto n. 79 del 30 aprile 2024). Si tratta di un numero che non solo è insufficiente per soddisfare la domanda crescente, ma che rimane notevolmente al di sotto degli standard europei per la copertura dei servizi per l’infanzia.
Questa decisione non è soltanto una questione di numeri, ma ha profonde implicazioni sociali ed economiche. La riduzione dei posti disponibili negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia rappresenta un serio ostacolo per le donne italiane, che già oggi affrontano enormi difficoltà nel conciliare maternità e carriera professionale.
Con un tasso di occupazione femminile inferiore alla media europea e un divario significativo tra uomini e donne nel mondo del lavoro, le politiche pubbliche dovrebbero prioritariamente mirare a sostenere la partecipazione economica delle donne, non a limitarla.
Il problema è acuito dal fatto che, nonostante gli sforzi di revisione e rifinanziamento annunciati dal Governo, le misure per gli asili nido e le scuole dell’infanzia sono state fra le più penalizzate. La Corte dei Conti ha segnalato che oltre 1,3 miliardi di euro sono stati eliminati proprio da questi settori cruciali, mettendo in dubbio l’impegno effettivo dell’Italia nel fornire un adeguato supporto alle giovani famiglie.
A questo si aggiungono le criticità operative e burocratiche che hanno rallentato l’implementazione dei progetti, ancora una volta soprattutto nelle regioni del Sud dove l’accesso ai servizi educativi rimane particolarmente limitato. Nonostante alcuni sforzi di riallocazione delle risorse e di estensione del tempo pieno, i problemi strutturali rimangono irrisolti.