In pensione a 59 anni col 30% in meno: l’idea della Meloni

Andare in pensione a 58-59 anni e con 35 anni di contributi, ma perdendo fino a un terzo dell’assegno per effetto del ricalcolo dell’importo col metodo contributivo.

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Redazione

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Tra i primi dossier sul tavolo del nuovo governo, che Giorgia Meloni si prepara a guidare dopo l’incontro chiarificatore con Silvio Berlusconi che ha archiviato lo strappo sull’elezione del presidente del Senato, c’è quello della riforma delle pensioni. Tema caro anche a Matteo Salvini e alla Lega, visto che in assenza di interventi su nuove forme di anticipo pensionistico c’è il concreto rischio di un ritorno alla Fornero, vero e proprio spauracchio dei leghisti.

Meloni e Opzione Uomo

Mentre rallentano le pensioni avviate con Opzione Donna, l’idea di Giorgia Meloni sarebbe quella di una Opzione Uomo, che permetterebbe da una parte di mantenere le promesse elettorali di Fratelli d’Italia su una maggiore flessibilità in uscita dal mondo del lavoro, dall’altra di realizzare una riforma senza compromettere in maniera eccessiva i conti pubblici. L’ipotesi si aggiungerebbe alla proposta di riforma previdenziale avanzata dalla Lega che invece prevede la cosiddetta ‘quota 41’.

L’esecutivo di Mario Draghi aveva infatti indicato la via dell’estensione di “Opzione donna”, per quella che nei primi tavoli con le parti sociali era chiamata appunto “Opzione tutti”. La sostanza non cambia: l’idea è di consentire ai lavoratori flessibilità in uscita rinunciando alla pensione completa così da mettersi in pari con le nuove generazioni, già tutte con il sistema contributivo.

L’inserimento di Quota 41

In parallelo all’applicazione del modello allo studio di Giorgia Meloni, la Lega continua a insistere sulla la proposta di “Quota 41”, cioè una pensione anticipata per chi ha 41 anni di contributi, anziché 42 anni e 10 mesi per gli uomini o 41 anni e 10 mesi per le donne, ma con una soglia di età per attutire l’impatto sui conti pubblici (qui abbiamo riportato i 15 punti del programma della destra).

La scelta da parte del nuovo governo del modello dipenderà infatti strettamente dalle risorse a disposizione in bilancio. Per il Carroccio “Quota 41” costerebbe 4 miliardi di euro e poi 5 miliardi all’anno, mentre l’Inps sostiene che potrebbe pesare sulle casse dello Stato per 18 miliardi di euro nel triennio.

La spesa per i trattamenti pensionistici in Italia è destinata comunque a crescere: si calcola che quest’anno è stata di 297,3 miliardi, salirà a 320,8 miliardi nel 2023, a 338,3 nel 2024 e a 349,8 nel 2025, quando dovrebbe arrivare a costare il 17,6% del Pil (qui avevamo riportato le proposte dei partiti sulle pensioni per superare la Legge Fornero).

Il no di Landini

“Mandare in pensione le persone riducendogli l’assegno non mi pare sia una grande strada percorribile”. Con queste parole il segretario generale della Cgil Maurizio Landini boccia sul nascere l‘ipotesi di pensionamento anticipato a 58/59 anni con riduzione del 30% dell’assegno attribuita alla presidente di FdI Giorgia Meloni. “Credo – ha affermato a margine dell’assemblea nazionale dei delegati della Fillea-Cgil a Milano – che il tema sia quello di affrontare la complessità del sistema pensionistico. E che ci sia un altro tema di fondo per dare un futuro pensionistico a tutti i lavoratori: bisogna combattere la precarietà”.

L’Inps di Tridico

Sull’argomento è intervenuto anche il presidente dell’Inps Pasquale Tridico: “Credo che tutte queste riforme siano orientate a un principio giusto, ovvero quello di garantire una certa flessibilità in uscita rimanendo ancorati tuttavia la modello contributivo. Su questo eravamo orientati anche durante il governo Draghi. Quindi se si va in questa direzione poi ovviamente la politica deciderà ma si sembra che si è abbastanza in linea rispetto a quello che si stava facendo”, ha risposto ai cronisti, a Palermo, a proposito della riforma delle pensioni e dell’ipotesi quota 58-59 anni con 35 di anzianità per gli uomini con un assegno più basso.