Il grano è ancora una volta ostaggio della guerra. Ostaggio che si trasforma in arma puntata contro tutte quelle nazioni che dei cereali ucraini hanno enorme bisogno. L’accordo, scaduto il 17 luglio, ha consentito finora di esportare attraverso il Mar Nero quasi 33 milioni di tonnellate di cereali provenienti dall’Ucraina. Ora invece la Russia non garantirà più il passaggio sicuro dei rifornimenti su nave.
Il mancato rinnovo dell’accordo tra Russia e Ucraina, siglato a luglio 2022 con la mediazione della Turchia e rinnovato due volte nell’ultimo anno, ha scatenato di nuovo il panico per la sicurezza alimentare di mezzo mondo, soprattutto dei Paesi a basso reddito. Tra cui Asia e Africa, ma anche Europa. Compresa l’Italia, che rischia non poco.
Russia sconfitta e spartita: ecco cosa vuole l’Ucraina dopo la guerra.
Lo stop russo all’accordo sul grano
La decisione russa è irrevocabile e pone una barriera difficilissima da superare tra i cereali ucraini e il mondo. Il Paese invaso è uno dei più grandi produttori al mondo di grano, granturco e semi di girasole, che ovviamente erano il centro dell’accordo non prorogato.
Il mancato accordo ha influito sui prezzi del grano e di tanti generi alimentari, che hanno continuato a salire vertiginosamente. Dopo una breve parabola discendente registrata a maggio e a luglio 2022, coi primi corridoi per l’export e la firma dell’accordo sul grano ucraino, i costi sono schizzati di nuovo in alto (ecco quanto costerà davvero ricostruire l’Ucraina).
Perché la Russia non ha rinnovato l’accordo
La Russia lamenta da tempo il mancato rispetto della parte “russa” dell’accordo sui cereali. Tra le richieste di Mosca spiccano la rimozione dell’export di grano e fertilizzanti dalla lista delle sanzioni occidentali e la riconnessione della banca agricola Rosselkhozbank al circuito di pagamento internazionale Swift. Questi punti sono tra l’altro specificati in un memorandum concordato con l’Onu, siglato proprio parallelamente all’accordo sui cereali.
Putin non ha mancato di pompare la propaganda sulla questione, sottolineando come il Cremlino, nonostante l’Occidente non rispettasse i patti, abbia prorogato l’intesa più di una volta “per il bene dei Paesi che dipendono dai cereali ucraini”. Dall’altra parte Zelensky sottolinea invece come in realtà fossero stati firmati due accordi: uno tra “Ucraina, Turchia e Onu” e “l’altro tra Russia, Turchia e Onu”. Una contropropaganda che proietta la Russia come “violatrice degli accordi con il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e con il presidente Erdogan“.
Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito la linea della Federazione dichiarando che l’unico modo per “tornare all’intesa” è che siano soddisfatte “tutte le condizioni” dell’accordo. “La parte relativa alla Russia di questi accordi ancora non è stata attuata, quindi la sua validità è terminata“. Nel frattempo a Mosca si esulta per gli affari d’oro che si prospettano in entrata per chi vende cereali (qui abbiamo spiegato come la Russia riesce ad aggirare le sanzioni occidentali).
Dove vengono esportati i cereali ucraini
Quasi la metà (48,7%) dei cereali esportati attraverso il Mar Nero è giunta in Europa e Asia centrale, il 27,4% in Asia orientale e nell’Indo-Pacifico e il 15,2% in Medio Oriente e Nord Africa. Andando a vedere nello specifico chi sono i principali importatori di grano ucraino, troviamo al primo posto la Cina. Al quarto posto, dopo Spagna e Turchia, troviamo l’Italia, con più di 2 milioni di tonnellate di grano importate.
Come riportano le Nazioni Unite, che hanno mediato per siglare il primo accordo, circa l’80% del grano distribuito nel mondo nel 2023 dal World Food Programme proveniva dall’Ucraina. Una quantità cresciuta di parecchio rispetto al 50% registrato nel 2021 e nel 2022, equivalente a circa 725mila tonnellate distribuite tra Afghanistan, Sudan, Djibouti, Etiopia, Kenya, Somalia e Yemen. Gli altri cereali ucraini sono stati esportati in altri 45 Paesi in tre diversi continenti.
Cosa succede ora e cosa rischia l’Italia
Oltre ad aver bloccato l’accordo, la Russia ha anche colpito Odessa “per rappresaglia” contro l’attacco ucraino al Ponte di Crimea (di cui abbiamo parlato qui) e bombardato i depositi di grano presenti nella città portuale. Non solo: secondo gli Stati Uniti, Mosca pianifica attacchi alle navi mercantili che trasportano cereali nel Mar Nero. La risposta di Kiev non è stata meno violenta e ha fatto sapere che considererà qualsiasi nave nel Mar Nero diretta verso i porti russi o i territori occupati come potenziale “nave militare”, e quindi attaccabile.
Il primo rischio concreto è dunque l’ennesimo inasprimento del conflitto fra i due Paesi. Ma, come spiegato, ad andarci di mezzo sono tante altre nazioni. Lo stop all’accordo interrompe le spedizioni anche verso l’Italia, bloccando i quasi 2,1 miliardi di chili di mais per l’alimentazione animale, grano tenero e olio di girasole importati dall’Ucraina nel corso dell’anno di attuazione dell’intesa. I calcoli della Coldiretti riguardano il transito delle derrate alimentari dai tre porti sul Mar Nero di Chornomorsk, Yuzhny e Odessa.
Il nostro Paese dovrà dunque fare a meno, nel dettaglio, di 1,4 miliardi di chili di mais, 434 milioni di chili di grano, 100 milioni di chili di olio di girasole e altri cereali. Il blocco dei carichi di cereali sul Mar Nero è preoccupante dunque soprattutto, sottolinea la Coldiretti, per la fornitura di mais alle stalle italiane, “in una situazione in cui l’Ucraina contende all’Ungheria il ruolo di principale fornitore dell’Italia”. Il nostro Paese è costretto a importare circa la metà del proprio fabbisogno per garantire l’alimentazione degli animali da allevamento. L’Ucraina garantisce invece quote più ridotte dell’import nazionale di grano, che però durante l’accordo sono aumentate di oltre cinque volte rispetto all’anno precedente.
Verso una carestia mondiale?
Inutile girarci intorno: sulla carta il veto russo aumenta il rischio carestia in ben 53 Paesi dove, secondo l’Onu, la popolazione spende almeno il 60% del proprio reddito per l’alimentazione. Di conseguenza è in pericolo anche la stabilità politica dei suddetti Stati, per giunta in un periodo storico in cui si acuiscono le tensioni sociali e i flussi migratori, anche verso l’Italia.
L’annuncio della Russia spinge “dolosamente” i prezzi sul mercato delle materie prime agricole. Un settore in cui le quotazioni, sostiene la Coldiretti, dipendono sempre meno dall’andamento reale della domanda e dell’offerta e sempre più dai movimenti finanziari e dalle strategie di mercato. Queste ultime trovano nei contratti derivati future uno strumento su cui chiunque può investire acquistando e vendendo solo virtualmente il prodotto, a danno degli agricoltori e dei consumatori.
C’è però un aspetto da precisare sulla “chiusura russa”. Nei giorni immediatamente precedenti e successivi al “no” all’accordo, Vladimir Putin ha incontrato i leader di diversi Paesi africani, garantendo sulla sicurezza alimentare nonostante il blocco dei porti ucraini. Al punto da dirsi pronto a sostituire la fornitura di grano ucraino ai Paesi che ne hanno bisogno, concedendolo gratuitamente“.
Intanto però l’Italia è costretta a importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori, che hanno dovuto ridurre di quasi un terzo la produzione nazionale di mais negli ultimi dieci anni. Lo afferma il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini. E le accuse a Mosca da parte delle istituzioni comunitarie si sprecano. Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, ha affermato che il ritiro della Russia dall’accordo è stato “completamente irragionevole” e che Putin sta “di nuovo usando la fame come arma”. Il Cremlino, di pronta risposta, afferma che le Nazioni Unite hanno ancora tre mesi di tempo per rispettare il memorandum con la Russia sull’esportazione di grano e fertilizzanti russi. Lo stallo, al momento, è di ferro.