Ormai non è più un mistero: gran parte delle armi russe utilizzate in Ucraina è prodotta con componenti occidentali. Secondo Kiev, parliamo addirittura del 95% dei componenti critici di produzione estera che finiscono nelle attrezzature militari di Mosca. Opera non certo dei governi, compatti e uniti nel difendere il Paese invaso dietro diktat degli Usa, ma di aziende private. I cosiddetti contractor.
Nella realtà le percentuali sono più contenute, ma il risultato non cambia: sulla carta l’Occidente è ostile alla Russia per l’invasione dell’Ucraina e la bersaglia di sanzioni, ma nella pratica la rifornisce di materiali per l’industria bellica. E la stessa macchina delle sanzioni si è rivelata particolarmente inefficace. Ma allora da che parte stanno l’Occidente e la verità?
Componenti da Usa e Ue (e Cina) per le armi russe
Sono diversi i report, di intelligence e analisti, che certificano la fornitura di componenti occidentali alla macchina della guerra di Mosca. La Kyiv School of Economics parla di quasi tre miliardi di dollari in componenti acquistati dalla Russia tra i Paesi “ostili” nel 2023 per scopi bellici: quasi la stessa somma spesa prima che Usa e Ue introducessero le sanzioni contro il Cremlino. In tutto, attualmente circa il 30% dei materiali critici per gli armamenti russi viene prodotta da Stati Uniti e Paesi Ue. Il più grande partner economico in questo senso è il grande alleato di comodo di Mosca: la Cina, che importa in Russia il 41% dei materiali critici per la guerra. Per quanto riguarda la qualità, invece, le forniture americane sono impareggiabili e decisive per sistemi d’arma strategicamente rilevanti come i missili ipersonici Kinzhal (55% della componentistica) e i droni Geran (78%). Per non parlare dei microchip importanti per costruire i missili Kalibr e i droni kamikaze Lancet (che includono pezzi anche provenienti da Svizzera e Repubblica Ceca).
Bisogna tuttavia precisare che l’Occidente è sì opportunista in questo senso, ma non ingenuo. Sa benissimo che le sanzioni vengono sistematicamente aggirate dal Cremlino e infatti progetta di colpire più efficacemente anche i Paesi che fanno da “sponda” per le importazioni verso la Russia. E sa benissimo che una gran mole di componentistica per l’industria bellica Mosca l’ha accumulata nel corso degli anni. L’Occidente però tenta di salvare la faccia e, dati alla mano, ha diminuito del 90% la sua mole di export di componenti militari verso Mosca. Peccato che, come accennato, si giochi “di sponda” con i Paesi dell’ex Unione Sovietica, soprattutto in Asia Centrale. Stando al database Comtrade delle Nazioni Unite, nel corso del 2022 l’export tedesco nel Kirghizistan ha superato i 350 milioni di dollari, una cifra di gran lunga superiore ai 60 milioni del 2021 e ai 40 milioni del 2020. Sempre nell’anno dell’invasione russa dell’Ucraina aziende tedesche hanno venduto in Armenia prodotti per un totale di oltre mezzo miliardo di dollari, contro una media di poco più di 200 milioni dei 10 anni precedenti. Anche il Kazakistan partecipa alla “rotatoria eurasiatica”, registrando il massimo storico delle esportazioni tedesche a dicembre 2022, con un aumento del 90%. L’Uzbekistan e il Tagikistan, che non fanno parte dell’Unione doganale ma rientrano nell’associazione Csi, hanno invece raggiunto tassi di crescita rispettivamente del 130% e del 74%.
L’Agenzia ucraina anti-corruzione (Nacp) ha pubblicato un elenco che include 270 attrezzature straniere, anche italiane, finite nell’arsenale della Federazione Russa. Un’inchiesta condotta da Nikkei Asia evidenzia infine come, già nelle settimane immediatamente successive all’invasione, si sia registrato un aumento di 10 volte dell’export di semiconduttori dalla Cina e da Hong Kong verso la Russia, la maggior parte dei quali di produzione statunitense. Riassumendo il quadro generale della provenienza delle componenti per le armi russe, possiamo dare grossomodo per buone le seguenti percentuali:
- Cina e Hong Kong: 41%
- Paesi “non specificati” (Corea del Nord, Iran e Asia Centrale): 21%
- Stati Uniti: 15%
- Altri Paesi: 12%
- Unione europea: 7%
- Taiwan: 5%
Materie prime per le armi, anche gli Usa dipendono dalla Cina
Il flusso di import-export tra Usa e Russia si dipana anche nella direzione opposta: una parte, seppur minima, delle forniture per l’industria militare americana proviene proprio da Mosca. Proprio come la Russia, anche la Difesa statunitense dipende però dalle importazioni cinesi, e non poco. Nel giro di 60 anni le scorte di componenti e materiali militari americane si sono assottigliate profondamente. Un esempio su tutti: le riserve di antimonio, fondamentale per la produzione di esplosivi e munizioni, sono passate da 42 miliardi di dollari nel 1952 ad “appena” 900 milioni nel 2022. Come riferisce Aliseo, il 35% di questo materiale arriva in America proprio dalla Cina, che rifornisce i rivali per l’egemonia globale anche di altre materie prime strategiche come il butanetriolo, alla base del propellente dei missili Hellfire. Per non parlare del lantanio (quasi totalmente importato negli Usa da Pechino: il 91%), le batterie al litio e le terre rare.
Proprio sul capitolo delle terre rare, Washington ha deciso di muoversi per accrescere la propria autonomia industriale. Perché, se da un lato è vero che gli imperi come quello statunitense operano in maniera anti-economica importando massicciamente da altri Paesi, dall’altro ha necessità di slegare la propria filiera delle materie prime dalla dipendenza estera, cinese per giunta. In quest’ottica gli apparati americani hanno deciso di potenziare le proprie scorte della National Defense Stockpile (cobalto, litio, grafite, germanio e altri) e di riaprire miniere di terre rare come il sito californiano di Mountain Pass. Pechino, dal canto suo, non è rimasta a guardare e ha tentato di far pesare il suo ruolo e mettere pressione a Washington. Come? Ad esempio, come riportato sempre da Aliseo, riducendo fortemente l’export negli Usa di gallio e germanio e la fornitura di tecnologie per processare terre rare e produrre magneti.
E l’Italia, invece, come si riarma?
Tocca sempre chiederselo: e l’Italia? Anche il nostro Paese, seguendo l’ondata di “ritorno alla guerra” imposto all’Ue dagli Usa, ha disposto un riarmo. Come si evince dal Dpp (Documento programmatico pluriennale della difesa) 2023-2025, Roma punta forte sul rinnovamento del parco dei mezzi corazzati dell’esercito, che la dinamica della guerra in Ucraina ha contribuito a rivelare come potenzialmente vulnerabili. Il tutto, ovviamente, seguendo lo schema strategico di stampo americano: acquistare materiali e armamenti dai contractor Usa e dalla Germania. Cos’è la Difesa italiana ha programmato l’acquisto di circa 250 carri armati tedeschi Leopard 2 di ultima generazione, per una spesa totale di oltre 8,3 miliardi di euro. A dicembre 2023 l’italiana Leonardo e la franco-tedesca Knds un accordo per potenziare la cooperazione strategico-industriale.
Il piano comprende anche l’ammodernamento dei mezzi esistenti (soprattutto i carri Ariete) e la produzione autoctona (sempre con materiali importanti, s’intende) di veicoli corazzati moderni capaci di controllare droni e di utilizzare l’Intelligenza Artificiale. Senza dimenticare l’aviazione, col programma Tempest e lo sviluppo di caccia di sesta generazione e annessi droni (anche kamikaze). Il nostro Paese investirà anche nei Mlrs (Multiple Launch Rocket System), raddoppiando il proprio parco di artiglieria lanciarazzi multiplo, e in due nuove grandi unità navali Fregate Fremm, che passeranno così a 12 complessive.
Si tratta comunque di un programma a lungo termine, che si pone come primo traguardo temporale il 2037 e che deve fare i conti con la sostenibilità dei costi, che supereranno i 9 miliardi di euro e al momento in larga parte scoperti. Non a caso il ministro Guido Crosetto ha definito “impossibile” centrare l’obiettivo Nato del 2% Pil investito nella Difesa entro il 2024 e “difficile” persino entro il 2028.
La questione delle armi (non gratis) all’Ucraina
Un discorso sulla Difesa degli Stati occidentali e della Russia non può prescindere dalla questione delle forniture di armi all’Ucraina in guerra. Lo stallo sugli aiuti statunitensi bloccati al Congresso ha spinto Washington a “scaricare” gran parte di questo peso sulle spalle dell’Ue. Seppur garantendo il supporto a Volodymyr Zelensky, la Commissione europea ha lanciato un messaggio molto chiaro al presidente ucraino affermando di fatto che “si sbagliava” nel credere che tutte le armi fornite dall’Europa sarebbero state gratuite per Kiev. Le munizioni mancanti (il “famoso” milione di proiettili promesso) fanno parte di tranche già programmate per fine marzo, ma che vanno pagate. Il commissario europeo Thierry Breton ha affermato che Bruxelles li “consegnerà” e non li “trasferirà” all’Ucraina. Una differenza di termini che però si rivela significativa. Sono tre i canali di fornitura Ue verso il Paese invaso e solo uno di questi è gratuito: attraverso di esso l’Ucraina ha ricevuto 300mila proiettili, entro la fine di marzo il numero aumenterà a 550mila. “E bisogna pagare le forniture attraverso gli altri due canali”, ha sottolineato Breton.
L’Italia stessa a febbraio ha approvato tramite la Camera la fornitura di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore di Kiev per un totale di 2,2 miliardi di euro. L’elenco è secretato, ma dovrebbe comprendere elmetti e giubbotti, munizioni di vario calibro, sistemi anticarro (Panzerfaust) e antiaereo (Stinger), mortai, lanciarazzi, mitragliatrici leggere e pesanti (MG 42/59), mezzi Lince, artiglieria trainata (Fh70) e mezzi semoventi (Pzh2000). Bisogna però intendersi: come suggerito da Breton, gli aiuti militari all’Ucraina rappresentano un business. Soprattutto per gli Usa, che garantiscono i famigerati “aiuti” mettendo in moto la propria industria di aziende statali e soprattutto private di contractor. Secondo il Dipartimento di Stato americano, nel 2023 la vendita di armi Usa all’estero è cresciuta del 16% registrando un nuovo record da 238 miliardi di dollari. Di questi, 80,9 miliardi riguardano investimenti federali (+56% rispetto all’anno precedente) mentre ben 157,5 miliardi di dollari sono stati “mossi” dalle società private (+2,5% rispetto al 2022). Il conflitto russo-ucraino rappresenta uno stimolo alla macchina economico-industriale statunitense anche secondo i dati pubblicati dalla Federal Reserve: dall’invasione da parte di Mosca, il valore di produzione delle industrie difensiva e aeronautica è aumentato del 17,5%.
Una tabella che circola nei corridoi del ministero della Difesa offre dettagli anche sull’entità degli aiuti militari garantiti dagli altri Stati europei. La Germania finora ha stanziato 17,7 miliardi di euro per l’Ucraina, al ritmo di 3,5 miliardi all’anno fino al 2027. Ecco di seguito i numeri dei Paesi occidentali:
- Regno Unito: 9,1 miliardi;
- Paesi Bassi: 4,4 miliardi, spalmati su più anni;
- Danimarca: 8,4 miliardi in sei anni (1,4 miliardi all’anno a partire dal 2023);
- Norvegia: 3,8 miliardi in 5 anni (0,7 miliardi l’anno);
- Polonia: 3 miliardi in più anni;
- Canada: 2,07 miliardi;
- Svezia: 2,03 miliardi (inclusi gli aiuti umanitari e civili).
Invischiata in una difficilissima situazione, per la profonda mancanza di munizioni e uomini, l’Ucraina ha chiesto a gran voce una fornitura di armi “illimitata e tempestiva” per contrastare la Russia ed “evitare che la guerra si allarghi all’Europa”. Non solo: Kiev ha dichiarato di non aver ricevuto ben 16 miliardi di euro di proventi derivanti da due conferenze di donatori tenutesi in Polonia nel 2022, all’alba dell’invasione russa. L’annuncio è giunto proprio nel vortice delle preoccupazioni ucraine riguardo al sostegno militare e finanziario dei partner, con la guerra entrata nel suo terzo anno. I due eventi del 2022 avevano raccolto rispettivamente 10 miliardi e 6 miliardi di euro, ha specificato il premier ucraino Shmygal. “L’Ucraina non ha ricevuto nulla. I fondi sono stati raccolti dalla Polonia insieme alla Commissione Ue per sostenere il nostro Paese. Dove sono andati a finire?“. Kiev ha insomma un disperato bisogno di maggiore assistenza militare e finanziaria, in attesa di un nuovo pacchetto di aiuti statunitensi da 60 miliardi di dollari bloccato a Washington. Joe Biden ha spinto gli Stati Ue a “fare di tutto per fermare Vladimir Putin“, ma l’Europa non si mostra ovviamente compatta nella sua interezza su questo piano.
Non solo armi: l’importanza del gas per l’Ucraina
Nel frattempo la guerra non ferma gli affari e l’Ucraina è consapevole di dover puntare sul suo ruolo di “Paese di passaggio” per l’energia russa verso l’Europa, al fine di avere una minima voce in capitolo nelle questioni strategiche nazionali. Soprattutto alla luce dell’accordo tra gli Stati europei per la proroga di un anno, fino al 31 marzo 2025, delle misure per il taglio del consumo di gas di almeno il 15% rispetto ai volumi medi registrati nel periodo dal 1° aprile 2017 al 31 marzo 2022.
L’Ucraina è pronta a continuare il transito del gas russo, ma solo attraverso un intermediario dell’Unione europea, ha dichiarato il primo ministro Denys Shmyhal. “Se i Paesi europei agiscono come un consorzio, o se uno dei partner europei agisce come Paese di transito per il gas, siamo pronti a fornire tale servizio“, ha precisato il premier ucraino. In precedenza, il ministro dell’Energia ucraino Galushchenko aveva dichiarato che, entro la fine del 2024, il transito del gas russo attraverso il Paese potrebbe cessare. “La Commissione europea esclude qualsiasi conversazione con la Federazione Russa riguardo all’ulteriore transito del suo gas verso l’Europa attraverso l’Ucraina. Al contrario, dobbiamo sbarazzarci del gas russo il prima possibile”, ha invece tuonato il commissario europeo per l’Energia, Kadri Simson.