Gli Usa entrano in guerra? Tre scenari e lo spettro della Terza Guerra Mondiale

Il Presidente Usa Joe Biden ha incontrato sia il premier israeliano Benjamin Netanyahu che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas

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Miriam Carraretto

Giornalista politico-economica

Esperienza ventennale come caporedattrice e giornalista, sia carta che web. Specializzata in politica, economia, società, green e scenari internazionali.

Per la prima volta nella storia, un Presidente Usa è volato in Israele durante una guerra. Joe Biden ha incontrato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, i membri del suo gabinetto e persino israeliani che hanno vissuto direttamente il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre. Più di 1.300 persone sono state massacrate in Israele, decine di innocenti sono stati presi in ostaggio.

“Il gruppo terroristico Hamas ha scatenato il male puro e incontaminato nel mondo. Ma purtroppo il popolo ebraico sa, forse meglio di chiunque altro, che non c’è limite alla depravazione delle persone quando vogliono infliggere dolore agli altri” ha detto Biden in conferenza stampa. “In Israele ho visto un popolo forte, determinato, resiliente e anche arrabbiato, sotto shock e con un dolore profondo”.

Il capo di Stato Usa ha parlato anche con il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas, ribadendo che gli Stati Uniti restano impegnati a favore del diritto del popolo palestinese, per la loro dignità e autodeterminazione. “Come tanti altri, ho il cuore spezzato per la tragica perdita di vite umane palestinesi, inclusa l’esplosione in un ospedale di Gaza, che non è stata provocata dagli israeliani” precisa.

Cosa hanno in comune la guerra a Gaza e quella in Ucraina

Biden crea anche un parallelismo tra Gaza e Ucraina: “L’assalto a Israele fa eco a quasi 20 mesi di guerra, tragedia e brutalità inflitte al popolo ucraino, persone che sono state gravemente ferite da quando Putin ha lanciato la sua invasione a tutto campo. Non abbiamo dimenticato le fosse comuni, i corpi ritrovati con segni di tortura, lo stupro usato come arma dai russi e migliaia di bambini ucraini portati con la forza in Russia. Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno un punto in comune: entrambi vogliono annientare completamente una democrazia vicina“.

Biden sottolinea come lo scopo di Hamas dichiarato sia “la distruzione dello Stato di Israele e l’assassinio del popolo ebraico. Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Hamas usa i civili palestinesi come scudi umani e le famiglie palestinesi innocenti soffrono molto a causa loro”. Nel frattempo, Putin nega che l’Ucraina sia o sia mai stata una vera Nazione. Sostiene che l’Unione Sovietica abbia creato l’Ucraina, e due settimane fa ha detto al mondo che, se gli Stati Uniti e gli alleati si ritirassero, il sostegno militare all’Ucraina avrebbe appena “una settimana di vita”.

Il Presidente Usa rimarca quanto sia fondamentale il successo occidentale in Israele e Ucraina, “vitale per la sicurezza nazionale americana”. Se l’Occidente non fermerà Putin, questo non si limiterà solo all’Ucraina. In più occasione il capo del Cremlino ha ricordato come la Polonia sia “un dono della Russia”, i suoi ministri ripetono da tempo la cantilena che Estonia, Lettonia e Lituania sono le “province baltiche della Russia”. “Per 75 anni la NATO ha mantenuto la pace in Europa ed è stata la pietra angolare della sicurezza americana. Se Putin attacca un alleato della NATO, difenderemo ogni centimetro della NATO che il trattato richiede e richiede” chiarisce Biden.

Usa: per Israele un pacchetto “senza precedenti”

Il rischio di un conflitto più ampio ora potrebbe diffondersi in altre parti del mondo: nell’Indo-Pacifico e in Medio Oriente soprattutto. Senza dimenticare il ruolo dell’Iran, che sostiene la Russia in Ucraina, così come Hamas e altri gruppi terroristici in Medio Oriente (qui i Paesi che sostengono Hamas e quelli che sostengono Israele).

L’Occidente, continua Biden, sta lavorando per costruire un futuro migliore per il Medio Oriente, un futuro in cui questo territorio sia più stabile e meglio collegato ai suoi vicini, attraverso progetti innovativi come la ferrovia India-Medio Oriente-Europa, corridoio annunciato quest’anno al vertice delle maggiori economie del mondo. “Servono mercati più prevedibili, più occupazione, meno rabbia, meno rimostranze, meno guerre quando collegati”.

Biden, che è stato anche in questo caso il primo presidente americano ad entrare in una zona di guerra non controllata dall’esercito degli Stati Uniti dai tempi del presidente Lincoln, ha deciso di inviare al Congresso una richiesta urgente di bilancio per finanziare le esigenze di sicurezza nazionale dell’America e sostenere i partner definiti “critici”, tra cui Israele, Ucraina e Taiwan. Il pacchetto sulla sicurezza è un impegno definito “senza precedentiper la sicurezza di Israele, che ha l’obiettivo di aumentare il vantaggio militare qualitativo di Israele: si tratta di 100 miliardi di dollari.

L’Iron Dome, la “cupola di ferro”, cioè il sistema antimissilistico inaugurato dalle Forze di difesa israeliane nel 2011 e considerato tra i più avanzati al mondo, continuerà a sorvegliare i cieli di Israele. Poi tranquillizza tutti assicurando di aver discusso nuovamente con Netanyahu della necessità per Israele di operare secondo le leggi di guerra. Ciò significa proteggere i civili in combattimento nel miglior modo possibile, e significa assicurare alla popolazione che vive nella Striscia di Gaza cibo, acqua e farmaci.

Intanto, durante i colloqui con i leader di Israele ed Egitto, è stato raggiunto un accordo per la prima spedizione di assistenza umanitaria dalle Nazioni Unite ai civili palestinesi a Gaza. E su una cosa Biden sembra inamovibile: servono due Stati, non ne può esistere soltanto uno. “Israele e i palestinesi meritano ugualmente di vivere in sicurezza, dignità e pace”.

Sull’Ucraina, Biden ha chiesto al Congresso di continuare a inviare armi a Kiev. L’Ucraina ha riconquistato più del 50% del suo territorio e l’America continuerà così, a supportare. Sin dall’inizio Biden ha negato l’invio di truppe americane a combattere lì. “Tutto ciò che l’Ucraina chiede è aiuto: armi, munizioni, capacità di respingere le forze d’invasione russe fuori dal proprio territorio e sistemi di difesa aerea per abbattere i missili russi prima che distruggano le città ucraine”. Nel frattempo, Putin si è rivolto all’Iran e alla Corea del Nord per acquistare droni d’attacco e munizioni (qui i Paesi che forniscono armi a Israele quelli che le forniscono ad Hamas).

Proprio come nella Seconda Guerra Mondiale, dice Biden, i lavoratori americani stanno costruendo “l’arsenale della democrazia e servendo la causa della libertà”. Le attrezzature inviate all’Ucraina fanno parte delle scorte americane, prodotte in America: missili Patriot per batterie di difesa aerea prodotte in Arizona, proiettili di artiglieria fabbricati in 12 Stati in tutto il paese, dalla Pennsylvania all’Ohio al Texas. Non dimentichiamo che l’economia di guerra è estremamente fiorente, soprattutto, e storicamente, negli Usa.

Il capo della Casa Bianca riporta a più riprese il focus sulla centralità dell’America, sull’assoluta necessità che l’America ci sia, attivamente. Come ha detto Madeleine Albright, l’America è “la nazione indispensabile”.

Gli effetti della guerra sull’economia

Sui mercati finanziari intanto è il delirio. Si sa che le recessioni a livello globale negli ultimi anno sono state innescate da un forte aumento dei prezzi del petrolio e che il costo del greggio è inevitabilmente sensibile agli eventi in Medio Oriente.

La direttrice generale del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva, ha dichiarato la scorsa settimana che i suoi analisti hanno “pensato all’impensabile” nel tentativo di pianificare il prossimo grande shock per l’economia globale. Il rischio che quello che oggi è un conflitto confinato a Gaza si trasformi in qualcosa di molto più grande è tutt’altro che remoto.

Secondo alcuni analisti, non è un caso che Hamas abbia scelto come inizio del conflitto il cinquantesimo anniversario dell’inizio della guerra dello Yom Kippur, assalto congiunto contro Israele da parte di Siria ed Egitto che portò la fine del boom del Dopoguerra. La controffensiva di Israele nel 1973 provocò un embargo del petrolio da parte del cartello Opec, che provocò un aumento di 4 volte il prezzo del greggio e un’inflazione galoppante, cui seguì un aumento straordinario della disoccupazione. Per la prima volta si parlò di stagflazione: stagnazione + inflazione.

Tre scenari possibili

Per quanto l’economia globale oggi non sia più così dipendente dal petrolio come nei primi anni ’70, come evidenzia Larry Elliott sul Guardian, gli scenari possibili sono almeno tre.

Se la guerra rimarrà contenuta in un attacco di terra israeliano alla Striscia di Gaza – primo scenario, il più auspicabile per l’Europa – è probabile che i prezzi del petrolio si stabilizzerebbero intorno al livello attuale di 93 dollari al barile e potrebbero presto iniziare a scendere. Il FMI stima che un aumento sostenuto del 10% dei prezzi del petrolio ridurrebbe dello 0,15% la crescita economica globale e aggiungerebbe lo 0,4% all’inflazione nell’anno successivo. Sui mercati mondiali delle materie prime, il costo di un barile di greggio è ora circa il 10% più alto rispetto a prima dell’attacco di Hamas.

Se invece – secondo scenario – il conflitto da regionale si espandesse, lambendo anche il confine settentrionale di Israele con le forze Hezbollah appoggiate dall’Iran in Libano, e dunque trascinando l’Iran nel conflitto, rischieremmo il peggio. L’arrivo di portaerei statunitensi nel Mediterraneo orientale suggerisce che Washington stia preparando il terreno per questo piano.

Se l’Iran, e altri attori mediorientali come Libano, Egitto e Siria, venissero coinvolti nella guerra, ci sarebbero gravi rischi globali per le forniture energetiche, per il gas soprattutto, e per il rialzo dei prezzi del petrolio, che potrebbe persino schizzare a 150 dollari al barile se venisse chiuso lo stretto di Hormuz, da cui transita il 20% del greggio mondiale. Com effetto ulteriore, l’inflazione tornerebbe a doppia cifra sia in Europa che negli Stati Uniti e la minaccia di una nuova recessione globale spingerebbe le banche centrali a tagliare i tassi di interesse.

L’Arabia Saudita, il più grande esportatore di petrolio del mondo, avrebbe in questo un ruolo fondamentale. Il Paese degli sceicchi ha interesse a mantenere alto il costo del greggio, ma non così alto da causare una profonda recessione globale, perché questo a tendere comporterebbe un crollo dei prezzi del petrolio.

Infine, c’è lo scenario apocalittico, quello delineato dallo storico Niall Ferguson, in cui la Cina potrebbe approfittare della crisi per imporre un blocco a Taiwan e, così facendo, potrebbe riuscire a trasformare il conflitto regionale in Medio Oriente in una Terza guerra mondiale. “Anche se combattuto con metodi convenzionali, un conflitto militare tra le due maggiori economie del mondo porterebbe alla rottura delle catene di approvvigionamento globali, a un duro colpo per la fiducia e al crollo dei prezzi degli asset. Avrebbe conseguenze economiche catastrofiche, fino ad includere una seconda Grande Depressione” scrive l’esperto.

Il ruolo dell’Italia

Per quanto riguarda il nostro Paese, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto in una intervista al Corriere della Sera che “l’Italia in questo momento sta svolgendo un ruolo da protagonista, che può essere importante ed efficace, stiamo parlando con tutti”. Il ministro è stato in Israele, ma anche ad Amman.

Tutti questi Paesi arabi ci rispondono in un solo modo: va scongiurata una nuova guerra. Tutti dobbiamo capire che la questione palestinese rimane centrale nel Mediterraneo. Ma loro, tutti insieme, devono costruire le condizioni perché Israele non debba temere per il suo futuro o la sua stabilità”.

Sulla possibilità di una imminente guerra tra Israele e Hezbollah, e la minaccia di un allargamento del conflitto al Libano, Tajani ammette in una intervista alla Nazione che “il rischio c’è, lavoriamo perché non accada”. A Tunisia Tajani parlerà anche di questo: “Il Paese è stato per tanti anni la sede dell’Olp, seguono con attenzione la questione palestinese. Cerchiamo di convincere anche loro ad avere un ruolo di pacificatori”.

L’Italia, è convinto il ministro, può svolgere un ruolo importante, perché, dice, abbiamo buoni rapporti con i Paesi arabi, che pure sanno siamo schierati con Israele. “Tutti gli incontri che abbiamo sono frutto delle ottime relazioni diplomatiche. Stiamo lavorando tanto anche in Africa e nei Paesi del Golfo: con tutti i nostri interlocutori parliamo di pace. L’abbiamo fatto anche con Israele, al quale abbiamo chiesto una reazione ‘proporzionata’. Noi diciamo ad Israele che bisogna rispettare il diritto internazionale, ed evitare che la popolazione civile sia coinvolta, perché i palestinesi non sono Hamas”. Come si isola Hamas dai palestinesi? “Sradicando Hamas e parlando con l’Autorità Nazionale Palestinese. Ora, però, è importante che Hamas non spari più contro Israele”.

Parola d’ordine: de-escalation

La parola d’ordine per la diplomazia italiana è de-escalation: fare in modo che il conflitto non si allarghi ad altri Paesi, e si limiti al massimo anche tra israeliani e palestinesi, diminuendo di intensità. “Ciò implica che da parte di Hezbollah non si lancino più razzi su Israele, e da parte di Hamas che non si alzi il livello dello scontro”.

Ma la priorità è anche la liberazione degli ostaggi: “Serve certamente ad allentare la tensione come l’apertura del passo di Rafah o l’ingresso di cibo e acqua e medicine per la Striscia di Gaza. Senza mai dimenticare che, in questa storia, ci sono degli aggressori e un aggredito, che è Israele” sentenzia però. Scordandosi però, almeno per un momento, di un popolo, quello palestinese, schiacciato nella Striscia di Gaza, sottilissima fascia di terra di appena 365 km quadrati, dove vivono 2,1 milioni di persone, per lo più rifugiati palestinesi, costretti nel perimetro della recinzione che dal 2001 circonda l’enclave. Dove si hanno appena 10 litri d’acqua a testa per bere, lavarsi e cucinare, e l’elettricità è disponibile solo per 13 ore al giorno. Dove l’80% della popolazione vive in povertà, e più della metà non lavora.

Allerta attentati

Intanto, dopo l’attentato a Bruxelles, in Europa il livello di allerta attentati è alto. Per quanto riguarda l’Italia, sono stati arrestati due terroristi a Milano, ma, assicura il capo del MAE, “non ci sono segnalazioni particolari” (qui i possibili obiettivi israeliani in Italia).

Non bisogna drammatizzare, ma non bisogna neanche abbassare la guardia, dice. Per questo il governo ha deciso di sospendere Schengen alla frontiera con la Slovenia. “Sappiamo bene che l’area dei Balcani occidentali è ad alto rischio. Ci sono migranti che arrivano da Paesi sotto osservazione, ma c’è anche un traffico di armi molto forte”.