Cina e Usa si parlano, ma sono rivali: chi è più forte sui mari?

La tensione crescente fra Washington e Pechino per Taiwan e l'Indo-Pacifico pone con forza la questione della potenza navale. La Cina cresce a un ritmo enorme, mentre gli Usa arrancano. Analisi e scenari

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La risposta potrebbe apparire scontata. Gli Usa sono ancora gli egemoni globali proprio grazie al fatto di essere una talassocrazia, cioè una potenza marittima. La globalizzazione non è altro che il predominio americano sui mari, ed è per questo che i grandi nemici di Washington si affannano tanto per scalzarla. Iran e Russia, ma soprattutto Cina, la cui economia e la cui capacità navale stanno crescendo rapidamente. Al punto da superare gli Stati Uniti in alcuni ambiti, anche di pregnanza militare.

La visita a Pechino del Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha predicato distensione col Dragone ma ha anche riproposto i teatri di tensione fra i due Paesi. Il fronte più caldo e strategico del mondo sul quale si fronteggiano i due imperi è l’Indo-Pacifico, con Taiwan grande miccia pronta a far esplodere la terza guerra mondiale. Questo, almeno, è il sentimento comune. Ma qual è, di fatto, lo stato della Marina di Usa e Cina? Chi è più forte? Cosa manca a entrambi per essere pronti allo scontro finale?

Il dialogo fra Usa e Cina, tra distensione e rivalità

Al momento Usa e Cina non sono pronti a farsi la guerra e intensificano il dialogo. Il gigante asiatico si spende però come guida del fronte anti-occidentale, mentre Washington considerano il contenimento della Repubblica Popolare come uno dei massimi obiettivi strategici. Per questo Blinken ha incontrato a Pechino il suo omologo Wang Yi e il presidente Xi Jinping. Quest’ultimo ha sottolineato come i due Paesi dovrebbero essere “partner e non rivali”, aggiungendo che ci sono ancora una “serie di questioni” da risolvere nelle relazioni bilaterali. “Ci auguriamo che anche gli Stati Uniti possano avere una visione positiva dello sviluppo della Cina. Quando questo problema fondamentale sarà risolto, le relazioni potranno davvero stabilizzarsi, migliorare e andare avanti”, ha proseguito Xi.

Dopo aver condiviso i propositi di disgelo tra i due Paesi, affermando che “avranno i primi colloqui sul delicatissimo dossier dell’Intelligenza Artificiale“, Blinken è tuttavia tornato su toni meno distesi. Il Segretario di Stato ha infatti avvertito la Cina che, se non smetterà di fornire alla Russia materiale utilizzato nella guerra in Ucraina, gli Usa “agiranno”. Pechino è stata poi accusata di influenzare le elezioni presidenziali americane, e gli Stati Uniti “ne ha le prove”. “Abbiamo visto, in generale, prove di tentativi di influenzare e probabilmente di interferire, e vogliamo assicurarci che ciò venga interrotto il più rapidamente possibile. Qualsiasi interferenza da parte di Pechino nelle nostre elezioni è qualcosa a cui guardiamo con molta attenzione ed è totalmente inaccettabile per noi”.

La grande crescita dell’industria navale cinese

Scendendo dai piani della propaganda e della retorica al livello dei fatti, la realtà ci racconta molto di più delle parole, andando a fondo nell’analisi dell’effettiva potenza economica e militare di Cina e Usa. L’Isola di Changxing, vicino a Shanghai, è uno dei centri propulsori della grande espansione industriale in corso in Cina. Il settore più in fermento è quello della costruzione e dello sviluppo navale, che risponde a uno degli imperativi strategici del Dragone: diventare forte sui mari per scalzare lo strapotere americano e finalmente proiettare la sua potenza marittima nell’Indo-Pacifico. Un proposito decisamente improbabile da raggiungere, specie senza aiuti da parte di altre potenze, visto che la Cina ha notevoli difficoltà interne e un entroterra povero che si impoverisce ancora di più quando sono le coste a prosperare. Un incubo ricorrente per il gigante asiatico, fin dai tempi di Mao. Ora il Partito Comunista Cinese, e dunque il governo, ha deciso di puntare forte sul settore navale. E lo ha fatto.

Il centro di Changxing, in questo senso, detiene da solo una capacità industriale da capogiro, superiore a quella dell’intero sistema statunitense. I cantieri attivi sono centinaia, a partire dal mastodontico polo di Jiangnan (uno dei più prosperi e ricchi di risorse del Paese). Nel 2023, più della metà delle imbarcazioni da trasporto merci a livello mondiale è stata realizzata da compagnie cinesi. Stando ai dati forniti da Clarksons Research, aggiornati fino a gennaio 2024, il dato del commercial shipbuilding output vede al secondo posto la Corea del Sud (26%) e al terzo posto il Giappone (14%), completando un podio tutto asiatico. Gli Usa, per intenderci, forniscono al mondo meno dell’1% delle unità navali, mentre l’Europa nella sua interezza il 5%. Il Center for Strategic and International Studies calcola che Pechino superi di 200 volte la capacità di costruzione navale americana, con un investimento annuo di oltre 100 miliardi di dollari.

Al di là delle implicazioni meramente economiche, la superiore capacità cinese potrebbe rappresentare un fattore decisivo in vista di un futuro scontro con gli Usa. Che, come risaputo, al momento impediscono a Pechino di uscire nei propri mari rivieraschi e di prendere Taiwan. Nonostante nel 2023 la spesa complessiva degli Stati Uniti nel settore navale sia aumentata a quota 32 miliardi di dollari, il comparto appare in declino rispetto al passato. Ne consegue che, in centinaia di porti del mondo, la presenza cinese si trasformi in predominanza. Gli imperi mettono in atto tattiche anti-economiche, ma la Cina ha un modo tutto diverso di espandersi nel mondo, basato sulla crescita dell’economia. Di pari passo, è cresciuto anche il comparto cantieristico e portuale, che ha permesso al Dragone di esportare la propria capacità navale e infrastrutturale marittima all’estero. Ne sono un esempio i porti di Trieste, Amburgo e del Pireo. Il capitale derivante, anche dai traffici commerciali, ha finanziato la costruzione della Marina più grande del mondo per numero di scafi. Secondo il Pentagono, nel 2023 Pechino contava 370 navi da guerra, 78 in più rispetto agli Usa. Entro il 2030, la flotta cinese potrebbe raggiungere le 435 unità, mentre quella statunitense è prevista nel migliore dei casi “stabile”, se non in calo.

Potenza sui mari: il confronto fra Cina e Stati Uniti

C’è però da dire, sul piano squisitamente militare, che le imbarcazioni americane sono più grandi e in grado di trasportare e lanciare più missili. Per non parlare del maggior numero di portaerei attive: 11 degli Usa contro “appena” due della Cina, che però si sta rimboccando le maniche per aumentarne il numero. Non è un caso, infatti, che Washington sia più capace di proiettare la propria potenza in più aree del mondo, compreso lo Stretto di Taiwan a danno proprio di Pechino. Immagini satellitari pubblicate dal Center for Strategic and International Studies mostrano progressi significativi sulla costruzione della terza portaerei cinese (Tipo 003 Aircraft Carrier) e di altre importanti unità militari (Tipo 052C Destroyer e 052D Destroyer). Appare tuttavia molto difficile che la Cina raggiunga lo stesso numero di portaerei degli Stati Uniti, per un motivo “culturale” sugli altri: Pechino non vuole (e quindi non è capace di) proiettare la propria potenza con le stesse modalità di Washington. Per contro, il Dragone sta cercando di erodere il vantaggio tecnologico americano, costruendo e facendo ricerca a una velocità inedita per qualunque altro Stato.

Sembrano insomma definitivamente archiviati i tempi del primato cantieristico internazionale degli Usa, che ha raggiunto il suo apice durante la Seconda Guerra Mondiale con la costruzione della più grande corazzata della storia, la USS Iowa. Negli Anni Ottanta, però, i fondi destinati all’industria navale subirono un taglio netto voluto dall’amministrazione Reagan, riducendone il volume e perdendo terreno a vantaggio dei Paesi asiatici. In particolare, la Cina evidenzia uno sforzo notevole per rendere le proprie strutture e unità a duplice uso (commerciale e militare). I bacini di carenaggio, i siti di assemblaggio e gli impianti di fabbricazione cinesi producono unità mercantili, ma vengono utilizzati anche come leva per realizzare unità militari. Il confronto con gli Usa da questo punto di vista è impietoso: i pochi grandi poli cantieristici hanno un unico grande cliente, e cioè la Marina statunitense. Senza un settore della costruzione navale commerciale sul quale basarsi, cantieri e lavoratori dipendono dal budget e dalle priorità federali. Il che comporta non pochi problemi, tra cui la scarsità di fornitori, i costi in aumento e i pagamenti in arretrato. Il polo cantieristico Philly Shipyard della Pennsylvania, ad esempio, sta faticando molto a generare utili nonostante abbia accumulato più di 1,7 miliardi di dollari di ordini ancora in sospeso. Nel 2023, la holding ha registrato una perdita netta di 68 milioni di dollari.

Non è finita qui. Secondo molti analisti americani, la Marina Usa presenta una duplice criticità:

  • troppe delle sue unità sono datate, il che le rende molto dispendiose da riparare in termini di denaro e tempo;
  • le nuove navi sono sempre più costose da progettare e costruire.

Ad aprile 2024 la Marina americana ha pubblicato un rapporto che rivela ritardi fino a tre anni in molti programmi navali critici. La manutenzione su unità vecchie di 20 o 30 anni richiede uno grande sforzo per le autorità statunitensi, per non parlare del fatto che diversi fornitori di parti da riparare hanno cessato l’attività nel frattempo. Un bel problema, se devi mettere a posto un’imbarcazione costruita all’epoca della Guerra Fredda.

La Cina diventerà una grande potenza marittima?

Dall’altra parte del Pacifico, la Cina investe con continuità miliardi di dollari non solo per navi da guerra, ma anche per portacontainer, petroliere e portarinfuse per società di navigazione straniere. Una sola compagnia, la statale Cssc (China State Shipbuilding Corporation), è il maggior produttore di unità mercantili del mondo, con centinaia e centinaia di filiali che dunque ricevono ordini non solo dal governo di Xi Jinping, ma anche da aziende estere. Nel 2023, ad esempio, il colosso francese di spedizioni via mare Cma Cgm ha siglato un accordo da 3 miliardi di dollari con la Cssc per 16 portacontainer. In barba alle tensioni internazionali, anche la compagnia taiwanese Evergreen Marine è protagonista di fior fior di contratti con Pechino. La produzione di queste navi commerciali e delle unità militari viaggia di pari passo nei cantieri cinesi come quello di Jiangnan, le cui immagini satellitari mostrano chiaramente questa sovrapposizione e convivenza di intenti. In soldoni: ogni anno gli Usa mettono sull’acqua in media due o tre navi, mentre la Cina dalle 20 alle 30 unità.

La vera domanda è: alla luce di tutti questi dati, come è possibile che la Cina non sia già una grande potenza marittima? Dell’incapacità di proiettare potenza imperiale sui mari e del blocco statunitense verso Taiwan abbiamo già parlato. Un altro fattore determinante è il profondo divario che si crea tra costa ricchissima ed entroterra povero quando il Paese si apre a commercio e capitali stranieri. Senza contare la secolare autoreferenzialità del Regno di Mezzo e la sua sostanziale impreparazione alla guerra. Pechino ha bisogno ancora di tempo e, infatti, dialoga costantemente con Washington, che ricambia di buon grado vista la fase di profonda stanchezza imperiale che sta vivendo. Nei fatti, inoltre, i sottomarini cinesi sono meno evoluti dei loro omologhi statunitensi. Sul piano delle capacità grezze, gli Usa conservano insomma ancora un notevole vantaggio.

“Di doman non c’è certezza”, scriveva un noto fiorentino qualche secolo fa. Oggi di certo nessuno vuole o è pronto alla guerra per Taiwan e l’Indo-Pacifico. Ed è altrettanto certo che, in previsione del conflitto, la duplice capacità navale rappresenta una risorsa primaria per la Cina, per non dire un vantaggio sui nemici. Come la possibilità di riparare o sostituire rapidamente le unità distrutte o danneggiate. Al contrario degli Stati Uniti che, per scongiurare il nefasto scenario di non poter aggiornare la flotta, sta investendo grandi risorse nella costruzione e nalla manutenzione navali. Negli ultimi otto anni, il Congresso ha destinato 24 miliardi di dollari in più per la realizzazione di imbarcazioni da guerra: si tratta della voce di spesa più alta del bilancio del Pentagono. Tra tensioni interne e stanchezza nel competere su più fronti, appare più comprensibile perché gli Usa vogliano la de-esclation in Ucraina e Medio Oriente, scaricando sugli Stati Ue l’onere materiale del supporto a Kiev ed evitando a ogni costo uno scontro diretto con l’Iran. Parallelamente, la Marina americana ha lanciato un piano trentennale da 330 miliardi di dollari entro il 2053 per potenziare la flotta. La stretta alleanza con gli altri maggiori produttori navali del mondo, Giappone e Corea del Sud, rappresenta infine una garanzia decisiva contro qualsiasi velleità cinese. Almeno per ora.