La Siria è sempre più preda del caos. Bisogna però intendersi sul concetto di caos. I cosiddetti ribelli, così chiamati dai media perché si oppongono al governo di Bashar al-Assad, stanno conquistando una città dopo l’altra nella loro avanzata verso la capitale Damasco. Il loro obiettivo è rovesciare il regime, ma non solo.
L’azione degli insorti ha dato uno scossone alla postura delle potenze straniere attive in Siria, soprattutto a Russia e Iran. In questo senso è la Turchia a godersi lo spettacolo: supportando le milizie anti-governative, Ankara mette a segno i suoi obiettivi di influenza e “instabilità governabile”. Mentre il conflitto di Gaza tiene ancora impegnato Israele.
L’avanzata degli insorti siriani verso Damasco: cosa vogliono
Il fronte anti-governativo ha assediato anche Homs, la porta della Siria verso la costa mediterranea e roccaforte storica dei clan alawiti al potere, nonché sede delle principali basi militari russe nel Mediterraneo. L’obiettivo finale dei ribelli è però Damasco, “benedetto” con tanto di discorso pubblico anche dal presidente turco Tayyip Recep Erdogan. Galvanizzato dalle conquiste territoriali e desideroso di accreditarsi come interlocutore del prossimo presidente americano Donald Trump, il capo degli insorti Abu Muhammad al Jolani, ex capo di Al Qaeda in Siria, ha rilasciato un’intervista alla Cnn. “Lo scopo della nostra rivoluzione è il rovesciamento di questo regime“, ha detto, sfoggiando un taglio di barba nuovo di zecca e lontano dalle parvenze minacciose della sua precedente tradizione qaidista. “È nostro diritto usare tutti i mezzi disponibili per raggiungere tale obiettivo”, ha aggiunto rassicurando però le cancellerie occidentali sulla volontà delle sue milizie di non danneggiare gli interessi delle comunità cristiane e di altri gruppi non sunniti: “Nessuno ha il diritto di cancellare un altro gruppo. Queste comunità religiose hanno coesistito in questa regione per centinaia di anni e nessuno deve azzardarsi a eliminarle”.
Secondo le Nazioni Unite, una settimana di combattimenti ha provocato quasi 400mila sfollati, anche se l’avanzata militare sostenuta dai turchi ha finora visto più rese incondizionate che scontri all’ultimo sangue tra i fronti rivali. Così, mentre i ribelli hanno consolidato la presenza a Hama e si preparano alla sfilata trionfale verso Homs, si sono risvegliate anche altre forze anti-governative attive nel sud della Siria, da più di dieci anni mobilitate in una rivolta mai sopita contro il governo. Queste formazioni jihadiste si sono mosse verso nord, prendendo quasi senza neanche uno sparo le postazioni dei lealisti finiti in rotta.
Parliamo delle fazioni armate di Daraa, che hanno preso il controllo del valico frontaliero con la Giordania. Nel frattempo le autorità del vicino Libano, intimorite per una possibile trasformazione della contesa in conflitto a sfondo confessionale (etichetta retorica, ma che mobilita i gruppi), hanno chiuso tutti i passaggi di confine lasciando aperto soltanto quello lungo l’autostrada Beirut-Damasco. Anche le comunità druse di Suwayda, altra regione meridionale al confine con la Giordania, si sono attivate, stabilendo di fatto una regione semi-autonoma dopo oltre un anno di proteste. Gli unici scontri davvero violenti si sono avuti tra insorti filo-turchi e miliziani curdi nella valle dell’Eufrate. Qui le forze governative hanno smobilitato lungo tutta la riva occidentale del fiume, lasciando che i curdi prendessero la strategica città di Deir el Zor e il suo aeroporto militare. Più a sud, al confine con l’Iraq, le milizie sciite filo-iraniane sono fuggite oltre confine, proprio mentre il leader della coalizione armata irachena, sostenuta dall’Iran e per anni operativa in Siria al fianco di Assad, ha dichiarato: “La crisi siriana è un loro affare interno”. Intanto a ovest dell’Eufrate cellule dell’Isis – mai domate nonostante la “lotta al terrorismo” propagandata da russi, siriani governativi e americani – si sono riattivate sperando di occupare spazi lasciati vuoti dall’apparente caos innescato dal collasso delle difese di Damasco e dei suoi storici alleati.
Il ruolo e gli interessi della Turchia nella guerra di Siria
La Turchia, in piena corsa neo-imperiale, è da anni il manovratore oscuro delle dinamiche siriane. Dopo anni di proverbiale equilibrismo e dopo la svolta anti-israeliana, Erdogan è uscito allo scoperto anche sul Paese fulcro dell’intero sistema mediorientale. La Siria è infatti una piattaforma fondamentale per diverse potenze: per la Russia è trampolino di lancio e porto di presenza nel Mediterraneo, per l’Iran è autostrada logistica per il rifornimento delle milizie sciite che combattono Israele, per gli Usa è pedina imprescindibile per mantenere in equilibrio la regione (da mantenere divisa al suo interno ma non in preda all’escalation incontrollata).
“Dopo Idlib, Hama e Homs, ovviamente l’obiettivo sarà Damasco. Avevamo lanciato un appello ad Assad per determinare assieme il futuro della Siria. Purtroppo non abbiamo ricevuto una risposta positiva”, ha affermato il presidente turco, mentre a Baghdad, nel vicino Iraq, si sono incontrati i ministri degli Esteri iraniano, siriano e iracheno, risoluti nel dirsi uniti contro “il terrorismo”. A Doha, in Qatar, si svolgeranno invece colloqui tra Iran, Russia e proprio la Turchia. Quest’ultima si sta fregando le mani per aver centrato due obiettivi di lungo corso in Siria, senza mobilitare alcun soldato aggiuntivo nel nord:
- allungare la mano turca al di là delle zone controllate dai suoi militari, giungendo all’ambita fascia di confine;
- il ritiro delle forze curde siriane legate al Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan col quale è in scontro da decenni.
La crisi di Russia e Iran in Siria
La portata dello sconvolgimento siriano è restituita dalle decisioni delle potenze straniere attive nel Paese dai tempi dello scoppio della guerra civile nel 2011, in seguito alla cosiddetta Primavera Araba. Gli Stati Uniti hanno chiesto ai loro cittadini di lasciare il Paese “fin quando sono ancora disponibili i voli commerciali”. Azione che non ha però impedito al presidente Joe Biden di ordinare incursioni contro delle postazioni dei Guardiani della Rivoluzione iraniani (pasdaran) in Siria, in seguito a degli attacchi contro il personale militare americano. L’indebolimento del regime di Assad e delle forze che lo sostengono è un’occasione anche per Washington.
L’Iran a parole ha assicurato che farà di tutto per sostenere il governo del sempre più traballante presidente Assad, ma la verità del terreno dice che le forze filo-iraniane sono da giorni scomparse dal campo di battaglia. La Russia, solo una settimana fa descritta come la vera regina delle dinamiche politico-militari nella Siria in guerra, si è defilata e appare incapace di difendere gli ultimi bastioni di resistenza governativa. Anche Mosca ha invitato i connazionali a lasciare il Paese mediorientale, ordinando inoltre alla flotta russa (formata da tre fregate, un sottomarino e due navi ausiliarie) di lasciare la grande base navale di Tartus.
Dopo Teheran, ora anche Mosca e Washington cercheranno l’aiuto della Turchia per frenare l’avanzata ribelle contro il governo siriano. Erdogan, da parte sua potrebbe anche dare segnali di distensione per aumentare il proprio potere negoziale, ma si rivelerà pura retorica per due ragioni principali:
- Ankara ha un ascendente sulle formazioni jihadiste come l’Hts (che ha una sua propria agenda), ma non ne governa pienamente l’offensiva
- l’intento turco è proprio quello di limitare l’influenza russa e iraniana nella regione.
Dall’altro lato, c’è però un motivo opposto che indurrebbe il governo Erdogan ad allentare la pressione in Siria dopo aver sparigliato abbastanza le carte del Medio Oriente: il caos perdurante nel Paese rischia di provocare nuova instabilità alle porte della Turchia, in cui durante il primo conflitto in Siria si sono rifugiati più di tre milioni di siriani.