Russia, Usa e Cina: tutti contro tutti in Asia. Cosa succede

La guerra d'Ucraina si allarga e si trasforma in guerra economica in Eurasia. Il perno geopolitico del globo fa i conti con le mire degli imperi vicini e lontani. Compresi Turchia e Iran. Perché l'Asia Centrale è così importante?

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 25 Settembre 2023 18:45

La guerra d’Ucraina è il tragico sintomo regionale di una guerra più ampia per l’egemonia globale, che dunque sconvolge lo scacchiere geopolitico anche in altre parti del mondo. Una di queste è senza dubbio l’Asia Centrale. Esteso e strategico regno di mezzo tra Cina e Russia, che neanche troppo segretamente bramano e manovrano per assoggettarlo alla loro influenza. Progetti economici, corridoi energetici, propaganda, infrastrutture, risorse idriche, aiuti militari a questa o quella fazione interna fomentata contro un’altra.

Una partita che non poteva lasciare fuori dal tavolo del gioco anche l’egemone globale: gli Stati Uniti. I protagonisti sono tutti quei Paesi che finiscono in -stan, ben consapevoli del loro preziosissimo ruolo in termini geopolitici, materiali ed economici. Uno scontro silenzioso tra grandi potenze per un tesoro strategico: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. Vediamo in che modo.

Intanto in Europa la Polonia prepara la sua personale “rivoluzione”.

Perché l’Asia Centrale è così importante?

Alcuni, molti, la reputano la frontiera più strategica del mondo, perché di fatto l’Asia Centrale rappresenta la cerniera continentale che cuce tra loto le due grandi metà del mondo: quella orientale e quella occidentale. Una macro area geografica ricca di risorse naturali ed energetiche e crocevia di un sistema di comunicazione e commerciale in grado di connettere Europa ed Asia (le Vie della Seta cinesi su tutte). Il politologo Halford Mackinder la chiama significativamente “Heartland”, il cuore e perno geostrategico del globo, l’Eurasia dura e pura, con le sue ricchezze e le sue profonde disuguaglianze sociali, da almeno trent’anni in bilico tra nazionalismi e sudditanza agli imperi che la circondano.

In primis Russia e Cina, partner per necessità anti-americana ma avversari biologici in quanto imperi che si toccano e in quanto aspiranti senior partner eurasiatici. Mosca e Pechino non si vogliono bene. I cinesi considerano i russi degli occupanti abusivi della Siberia, dal loro punto di vista un territorio asiatico e, dunque, cinese. I russi, per contro, hanno bisogno vitale di profondità strategica per difendere il Paese lontano dal cuore della nazione, in territori possibilmente distanti dal proprio estero vicino. Fantasmi del Natale presente proiettati nell’Asia Centrale.

Che la galassia -stan sia economicamente e strategicamente importante è noto da sempre. C’è un’intera Guerra Fredda a dimostrarlo o, ad esempio, il lungo e grande scontro tra l’Impero zarista e quello britannico in quello che è stato definito come il “Grande Gioco”. Se chi domina l’Europa domina il pianeta per status e mercato, chi controlla l’Eurasia è padrone di tutto il resto. Per questo motivo, oltre a Usa, Russia e Cina, l’Asia Centrale è nei sogni e nei progetti anche di due ex Imperi: Turchia e Iran. Potenze tutt’altro che di secondo piano per le cinque Repubbliche della regione, nelle quali l’influenza turco-persiana è molto forte e considerata. Soprattutto per via dell’assenza di un’identità e un’indipendenza nazionali, prima soffocate dal nomadismo e dal colonialismo zarista e sovietico e poi create a tavolino per ragioni politiche.

La guerra Ucraina-Russia si allarga ad altri Paesi.

Anche Turchia e Iran entrano nel “gioco”

Ankara punta sulla cultura e sul ceppo linguistico turco condiviso: non è un caso che le serie tv più viste in Kazakistan siano state prodotte a Istanbul. Per certificare questo suo primato, la Turchia ha attivato il Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni, di cui fanno parte anche Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan, con Turkmenistan e Uzbekistan alla porta ad aspettare il loro turno. Erdogan è uno dei pochi strateghi geopolitici in circolazione e lo ha dimostrato una volta in più estendendo questa narrazione perfino alla Cina, e in particolare alla minoranza turcofona uigura della provincia dello Xinjiang (nota anche come Turkestan orientale). Un punto di passaggio nevralgico sulle faraoniche Vie della Seta che finiscono dritte in Germania.

L’influenza turca nello spazio post-sovietico si dipana anche in ambito tecnologico militare. Il centro analitico indipendente Caspian Center Policy pone infatti l’accento sulla crescente espansione dei droni turchi in Asia Centrale. Una penetrazione “benedetta” dagli Stati Uniti, che sperano così di spezzare l’influenza russa nella regione tramite l’azione di un Paese Nato che però ha una postura ambigua nei riguardi di Mosca. Paradossi decisamente usuali nelle relazioni internazionali.

Anche Teheran coltiva legami storico-culturali e religiosi con l’Asia Centrale, in special modo con il Tagikistan, dove si parla un parente strettissimo del persiano parlato in Iran e in Afghanistan. Tutti questi attori devono però fare i conti con gli inevitabili estremismi, religiosi e terroristici, attivi nell’area. Come il Movimento Islamico dell’Uzbekistan o il Vilayat Khorasan afferente allo Stato Islamico. Uno dei principali fattori di instabilità regionale, che incentivano le ingerenze straniere e la preminenza pressoché totale del settore privato. La domanda di materie prime locali è destinata ad aumentare, e questo le cinque Repubbliche in -stan lo sanno bene. La partita si giocherà tutta sulla possibilità di sfruttare questa “arma” per aumentare il proprio peso geopolitico o su quella di svenderla al miglior offerente.

Cosa vuole la Russia

Con l’invasione dell’Ucraina e il proliferare delle sanzioni occidentali a suo danno, la Russia ha spostato quasi in toto i suoi interessi verso Oriente. Le Repubbliche ex sovietiche hanno accolto ben volentieri i capitali e le tecnologie russe, aiutando Mosca ad aggirare i blocchi imposti dall’Occidente (ne abbiamo parlato qui). Forte della sua ascendenza ex sovietica sull’intera regione e dei legami storici, Mosca ha cercato di esportare negli Stati asiatici centrali anche la propria presenza militare. Come la Turchia, anche la Russia ha promosso entità sovranazionali per legare a sé i Paesi asiatici centrali. Come l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto, formato da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) e, soprattutto, l’Unione Economica Eurasiatica. Senza dimenticare il Forum economico internazionale di San Pietroburgo (Spief), il principale evento politico-economico in Russia al quale partecipano anche le stelle dell’ex galassia sovietica.

Durante un incontro col presidente kazako Kasym-Žomart Tokaev, il 17 giugno 2022 Vladimir Putin ha citato bizzosamente una frase dello scrittore americano Mark Twain per descrivere la vacuità della guerra economica scatenata dagli Usa contro la Russia: “Le voci sulla mia morte sono state molto esagerate”. Con l’omologo kazako che ridacchiava, sornione, pensando alla collaborazione economica e industriale con Mosca da oltre 40 miliardi di dollari annui (dichiarati). Entrambi hanno poi sottolineato l’importanza della cooperazione con la Cina, per instaurare un nuovo ordine mondiale multipolare che spezzi l’egemonia statunitense su regioni lontane migliaia di chilometri e anni luce politici da Washington (come dimostra l’annunciato allargamento della coalizione anti-Nato BRICS). Un’alleanza contingente, tutt’altro che eterna, ma che ha visto il Kazakistan – oltre a Kirghizistan e Tagikistan – teatro di esercitazioni militari congiunte. La prima risale addirittura al 2003 (6-12 agosto), quando a Usharal andò in scena la primissima esercitazione combinata tra i due eserciti regolari.

Vent’anni fa si consumò infatti la svolta strategica russa in tema di relazioni internazionali. L’allora giovane Cremlino di Putin aveva tentato un avvicinamento a Usa e Ue salvo poi, complice anche l’allargamento della Nato alle Repubbliche Baltiche, aver invertito completamente la rotta nel 2006. Alla conquista dell’Est, con investimenti ed export di idrocarburi a spianare la strada verso il Pacifico. Incontrando le consuete trappole occidentali, come il supporto alle cosiddette “rivoluzioni colorate” non solo in Georgia e Ucraina, ma anche in Paesi come il Kirghizistan.

A tal proposito, ultimamente le promesse americane sembrano aver prodotto risultati perlomeno culturali anche in Tagikistan. Il Paese intende infatti rinominare 4.833 nomi geografici di località e insediamenti a causa della loro incoerenza con le norme della lingua nazionale. Sintomo che la politica anti-russa in Asia Centrale si è trasformata in tendenza negli ultimi anni, e sembra che Dushanbe intenda superare tutte le altre Repubbliche nella velocità di allontanamento dalla sudditanza linguistica russa. Un altro aspetto da non sottovalutare per il Cremlino.

Cosa vuole la Cina

In Asia Centrale Pechino punta tutto, o quasi, sulla Belt and Road Initiative (BRI) delle Nuove Vie della Seta per imporsi sul modello socio-economico occidentale. Anche prima del lancio ufficiale del maxi progetto, però, la Cina aveva investito notevoli somme nello sviluppo infrastrutturale delle Repubbliche ex sovietiche con l’obiettivo principe di favorire la stabilità nella regione, poiché un vicino turbolento minaccia anche la propria tenuta politica e l’immagine che si dà di sé al mondo (in bilico tra solido controllo dell’estero vicino e debolezza perfino nella propria sfera d’influenza). L’altro scopo del Dragone è quello di rendere florido un mercato moderno nell’area che a sua volta favorisca il flusso di merci da e verso l’Europa. A primario beneficio della Repubblica Popolare, intimamente convinta che kazaki, kirghizi e tagiki siano “gente loro”, con molti più punti in comune rispetto agli abusivi russi.

L’immagine che un Paese offre di sé ai vicini è vitale in un sottomondo come quello asiatico in cui il fine giustifica l’ordinamento politico, e non sembra poi così importante per le popolazioni. La Cina punta tutto sulla figura della grande potenza economica, quasi benefattrice, sicuramente garanzia di benessere per chi si associa. In questo senso l’attuazione del progetto di costruzione della “grande ferrovia” dalla Cina all’Uzbekistan attraverso il Kirghizistan: quest’ultimo Stato ha accolto con grande favore l’iniziativa, la prima che finalmente concorrerà allo sviluppo della rete ferroviaria nazionale, che mina la forte influenza russa su Bishkek (come dimostra, ad esempio, la firma del memorandum sulla costruzione della linea ferroviaria Balykchy-Kochkor-Kara-Keche).

Il sistema ferroviario del Kirghizistan non è elettrificato e le operazioni di aggiornamento sono di fatto bloccate, vista la carenza di elettricità e di personale specializzato. Il territorio montuoso rende inoltre difficile il movimento dei treni di grandi dimensioni, ed è ancora inutile sperare che la nuova linea ferroviaria dalla Cina sostituisca almeno la metà del percorso che si snoda in Kazakistan. Una regione estesissima e aspra, interdipendente al punto da indurre Pechino a muoversi su più fronti, cercando di portare dalla propria parte quanti più governi -stan possibili (e intanto le banche cinesi “mangiano” la Russia: la mossa che cambia tutto).

La Cina è a una svolta della sua storia come grande potenza. Il terzo mandato da presidente concesso a Xi Jinping ne hanno fatto un semidio geopolitico, che dovrà affrontare fatiche erculee: mantenere vive le Nuove Vie della Seta, che passano per la Federazione Russa e l’Ucraina, attualmente in guerra; contrastare la strategia di contenimento degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico; erodere la sfera d’influenza russa in Eurasia. In questa direzione è andato il vertice tra Xi e i leader di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan (il formato China+Central Asia, C+C5) svoltosi a Xi’an il 18 e 19 maggio. Segnando un’importante contrapposizione d’immagine: la Cina e le Repubbliche asiatiche “contro” il G7, che contemporaneamente si era riunito in Giappone, ribadendo la necessità di frenare l’ascesa militare e tecnologica del Dragone.

Cosa vogliono gli Usa

Il 2024 delle elezioni presidenziali americane si avvicina e Joe Biden vuole quagliare per non essere risucchiato nel vortice del malcontento popolare. Gli Stati Uniti devono tornare a vincere, senza dissanguarsi come il popolo crede stia facendo per finanziare la resistenza ucraina. E devono trovare un orizzonte quanto più stabile possibile per il dopoguerra. Un tassello di questa strategia è stato garantito dal summit, organizzato a margine della plenaria dell’Onu del 19 settembre, che il numero uno della Casa Bianca ha tenuto coi leader di Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan. Diventando il primo presidente americano della storia a partecipare a un incontro di questo tipo con questi Paesi.

La propaganda è sempre la stessa messa in campo in Ucraina: gli Usa sono determinati a difendere la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale; in realtà sono interessati a sfruttare le enormi potenzialità economiche ed energetiche dell’Asia Centrale. Anche le minacce citate sono sempre le stesse: Russia e Cina. Gli Usa hanno perso appeal e presenza nell’area da quando hanno ammesso la sconfitta in Afghanistan. Ma adesso hanno fiutato un aumento di scetticismo nei confronti delle mosse russe in campo militare e politico e hanno tutta l’intenzione di approfittarne. Per questo a marzo il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha fatto tappa in Uzbekistan e Kazakistan, i due Stati più rilevanti dal punto di vista economico e demografico. E per questo è stato rilanciato il ruolo del Business Council Kazakhistan-Stati Uniti, nato per potenziare i legami economici e favorire maggiori investimenti diretti americani (FDIs) nel Paese.

Perché il Kazakistan? Basti un elemento su tutti: oleodotti e gasdotti. L’infrastruttura chiamata Caspian Pipeline Consortium trasporta circa il 70% del petrolio kazako attraverso la Russia e garantisce ben il 40% delle importazioni italiane, per dirne una. Per non parlare della posizione geografica cruciale per rotte commerciali, comunicazioni e trasporti: transito obbligato e florido lungo le Nuove Vie della Seta cinesi e porto preminente del Mar Caspio. Biden diventerà il primo presidente americano a recarsi in Kazakistan e Uzbekistan. Uno dei motivi principali (e meno esplicitati) riguarda la fornitura di uranio per le centrali nucleari statunitensi. Un quadro complesso e variegato, che deciderà il futuro del mondo.