Ai funerali di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah ucciso nei raid israeliani in Libano, l’ayatollah Ali Khamenei si è presentato con un fucile al fianco e ha minacciato il grande nemico. “L’attacco dell’Iran su Tel Aviv e Gerusalemme è stato legittimo, i missili che abbiamo lanciato sono la punizione minima“.
La solita propaganda, certo, ma dietro le parole della Guida suprema si agita la questione della “nuova equazione” teorizzata da Teheran già ad aprile, all’epoca del primo attacco missilistico diretto contro lo Stato ebraico. Un’equazione che minaccia di cambiare l’equilibrio del Medio Oriente e che, in sostanza, coincide con il terzo principio della dinamica.
Cosa vuole l’Iran e perché fa la guerra a Israele
L’attacco iraniano del 1° ottobre, esattamente come quello del 13 aprile, è stato letteralmente telefonato. Vuol dire che Teheran ha avvisato preventivamente Israele che avrebbe lanciato razzi e droni, in modo che venisse approntata l’adeguata difesa antiaerea. Ma che modo di fare la guerra è? Perché l’ha fatto? Perché la Repubblica Islamica non vuole l’escalation incontrollata e la guerra aperta e totale. In primis perché non è in grado di sostenere un conflitto convenzionale, specie sul suo territorio nazionale. Poi perché ha costruito appositamente la Mezzaluna sciita, o Asse della Resistenza, alla quale delegare il contenimento del “piccolo Satana” mediorientale. In altre parole: a fare la guerra a Israele ci devono pensare gli agenti di prossimità Hamas, Hezbollah e Houthi, con milizie sciite siriane e irachene pronte alla mobilitazione. Infine perché Israele è una potenza nucleare con capacità di risposta nucleare, cioè possiede testate atomiche non solo sul proprio territorio ma anche su navi militare al largo nel Mediterraneo.
L’ondata di assassinii mirati a vertici politico-militari e figure di spicco di Hezbollah ha inoltre evidenziato una volta di più la superiorità tecnologica e di intelligence di Israele. Ingaggiare una guerra diretta con un tale nemico sarebbe un suicidio per l’Iran. A maggior ragione se, come sempre, il Paese non abbia ancora raggiunto un livello industriale e di arricchimento dell’uranio tale da consentirgli di costruire la Bomba. Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con Teheran ha tuttavia steso un velo di preoccupante mistero sulle capacità atomiche dell’impero persiano.
Dal canto suo, neanche a Israele conviene trasformare il conflitto da scontro asimmetrica a guerra aperta. Innanzitutto perché deve ancora spezzare la tenaglia della Mezzaluna sciita: nonostante l’ecatombe dei leader, Hezbollah è tutt’altro che annullata nella sua parte militare come invece è capitato a Hamas nella Striscia di Gaza. Invadere via terra il Libano si tramuterebbe in un autentico disastro per lo Stato ebraico, che si troverebbe di fronte l’arsenale più potente dei proxy iraniani e miliziani preparati e decisamente motivati ad annientare l’avversario. Tel Aviv è inoltre tenuta, con molta fatica, al guinzaglio da Washington, chiamata al giro di boa delle elezioni presidenziali e a un’inevitabile svolta nella politica estera. I cittadini israeliani sono inoltre stanchi del perdurante stato di guerra, pur sostenendo il premier Benjamin Netanyahu più che nel recente passato, e di avere ancora molti loro connazionali nelle mani dei fondamentalisti di Hamas. A un anno dal tragico 7 ottobre che rappresenta la tragedia maggiore dalla Seconda Guerra Mondiale.
Cos’è la dottrina della “nuova equazione” dell’Iran
Poche ore prima che Israele lanciasse il suo raid di aprile contro l’Iran, i funzionari avevano avvisato le autorità statunitensi a Washington. Avevano riferito che era in programma un attacco e, senza condividere i dettagli, avevano indicato che sarebbe stato effettuato nei giorni seguenti. Era esattamente il messaggio che l’amministrazione di Joe Biden sperava di non ricevere. Per tutta la settimana, i funzionari americani avevano esortato lo Stato ebraico a non reagire all’attacco senza precedenti dell’Iran di cinque giorni prima, quando centinaia di missili e droni erano stati lanciati dall’interno dell’Iran contro Israele. La Casa Bianca temeva che un eventuale contrattacco israeliano avrebbe potuto innescare l’escalation incontrollata. I venti di guerra non convogliarono per fortuna in tempesta, ma i timori per una svolta irrazionale dello scontro sono in decisa accelerazione. A maggior ragione dopo la reazione iraniana del 1° ottobre, seppur composta e senza vittime.
Dopo aver sferrato la risposta con 300 droni e missili, Teheran ha inaugurato quella che il generale Hossein Salami ha definito “nuova equazione”: a ogni azione israeliana, corrisponderà una reazione iraniana. Apparentemente una dichiarazioni d’intenti, in realtà una forte mossa di propaganda. Anche per questo l’operazione del 1° ottobre, gemella per modalità a quella del 13 aprile, porta anche lo stesso nome: “True Promise” (con l’aggiunta del “2”). Dettata dall’ampia e prolungata “guerra ombra” con Israele, “coperta” dagli scontri più superficiali e diretti con gli agenti di prossimità dell’Asse della Resistenza. Gli ultimi letali colpi inflitti a Hezbollah e a grandi personalità della galassia sciita, inclusi pasdaran che si spostavano con disinvoltura nel Libano bombardato, hanno generato un forte senso di insicurezza all’interno della leadership militare iraniana. La pressione per vendicarsi contro Tel Aviv è aumentata di conseguenza, apparentemente a livelli ormai insostenibili. Teheran ha disperata necessità di ripristinare la propria deterrenza e ristabilire le linee rosse che Israele sta oltrepassando con troppa confidenza e troppo frequentemente.
Per anni, la minaccia percepita dall’Iran nei confronti di Israele si è basata su due pilastri: il suo vasto arsenale di droni e missili e le capacità delle sue forze per procura, in particolare Hezbollah in Libano. Questa strategia, nota come dottrina della “difesa avanzata”, mirava a proiettare il potere e a scoraggiare gli avversari oltre i suoi confini senza un confronto diretto. Un tempo pietra angolare dell’influenza persiana nella regione, tale sistema è stato messo a dura prova a causa del logoramento dei proxy iraniani. L’attacco sferrato il 1° aprile da Israele al consolato iraniano di Damasco è stato l’episodio che ha determinato la svolta e la maggiore operazione militare dalla guerra Iran-Iraq. Colpendo direttamente obiettivi israeliani, la Repubblica Islamica ha tentato di scoraggiare future aggressioni da parte di Israele e prevenire ulteriori vittime militari come quelle subite a Damasco.
Mosse e contromosse di Teheran
Il primo grande fallimento della nuova strategia iraniana è arrivato il 31 luglio. Israele ha condotto un attacco aereo nella periferia sud di Beirut, prendendo di mira l’alto funzionario di Hezbollah Fouad Shukr. Poche ore dopo l’insediamento del presidente iraniano Masoud Pezeshkian, lo Stato ebraico ha assassinato il leader di Hamas Ismail Haniyeh in un complesso alla periferia di Teheran, una mossa che ha colto molti di sorpresa e che, analogamente all’attacco di aprile, l’Iran ha percepito come uno smacco inaccettabile. Nelle settimane successive, i funzionari iraniani giurarono un’imminente ritorsione contro Israele. Tuttavia Teheran, insieme a Hezbollah, si è astenuto da una risposta, in parte per consentire il proseguimento dei colloqui di cessate il fuoco a Gaza. Così facendo, miravano a ottenere con mezzi diplomatici, e a un prezzo inferiore, ciò che non avrebbero potuto ottenere con l’azione militare: fermare l’offensiva israeliana nei territori limitrofi.
A fine agosto Hezbollah si è però discostato dalla posizione cauta del suo grande protettore e ha lanciato centinaia di razzi contro obiettivi in Israele, affermando in un comunicato iniziale che si trattava di una risposta all’assassinio di Shukr. Determinando così l’escalation con lo Stato ebraico. Un’ulteriore prova del fatto che la nuova equazione iraniana non ha trovato terreno fertile nel cortile mediorientale è arrivata con la grande decapitazione dei vertici del “Partito di dio”. In particolare con l’uccisione di Hassan Nasrallah il 27 settembre, evidenziando la sostanziale incapacità dell’Iran di proteggere i suoi alleati chiave e gli alti vertici militari.
Nel periodo immediatamente successivo, Teheran ha separato in maniera netta la retorica dalla realtà sul campo, ciò che dice da ciò che fa. Ecco che il 30 settembre il ministero degli Esteri iraniano ha chiarito che non avrebbe schierato forze in Libano o a Gaza in aiuto dei suoi satelliti. Eppure l’impero persiano si è trovato a un tremendo dilemma. Lanciare un attacco militare diretto contro Israele rischia di innescare una guerra totale che chiamerebbe in causa anche gli Stati Uniti. Al contrario, la moderazione ha minacciato di erodere la credibilità dell’Iran sia tra i suoi alleati sia tra gli avversari, distruggendo potenzialmente la rete dei proxy cruciale per la sua strategia regionale. Nonostante l’Iran possa in teoria sfruttare altri membri del suo asse – comprese le milizie sciite in Iraq, Siria e Yemen – la perdita della leadership di Hezbollah ha indebolito significativamente l’influenza persiana nell’area e la capacità di proiettare potenza in modo efficace.
Dopo il Libano, toccherà a Siria e Iraq?
Ad aggravare questo dilemma si aggiunge un sentimento crescente nella leadership militare iraniana secondo cui dopo il Libano, la Siria sarà il prossimo teatro di scontro con Israele. E a seguire anche l’Iraq, che chiude il semicerchio filo-iraniano della Mezzaluna sciita. Questa convinzione diffusa che la guerra allargata sia inevitabile ha portato molti a sostenere un’azione preventiva, ritenendo che fosse meglio affrontare la minaccia in modo proattivo piuttosto che rischiare di essere colti impreparati e vulnerabili.
In terra persiana, i commentatori hanno criticato la fuorviante attenzione di Pezeshkian per le riforme e l’impegno diplomatico con l’Occidente sulle questioni nucleari, a scapito degli alleati più stretti e strategici dell’Iran (Hamas-Hezbollah-Houthi). L’argomentazione secondo cui una risposta più energica all’assassinio di Haniyeh avrebbe potuto evitare la morte di Nasrallah ha evidenziato il dramma che i politici iraniani si trovano ad affrontare. La minaccia che Teheran riuscita a rendere credibile agli occhi di Israele, rafforzata dal vasto arsenale missilistico e dalla capacità d’offesa delle sue forze per procura, ne era uscita parecchio indebolita. Per giunta, il maxi attacco missilistico iraniano di aprile si è rivelato del tutto inefficace nel prevenire ulteriori azioni israeliane. Nel frattempo Hezbollah, una volta considerato il più potente alleato dell’Iran, è apparso allo sbando e incapace di organizzare una minaccia coordinata all’invasione di terra del Libano da parte di Israele.
La strategia dell’Iran di ristabilire la deterrenza, o addirittura di costringere Israele a riconsiderare le proprie tattiche, potrebbe addirittura rivelarsi controproducente. Il semplice lancio di missili non crea automaticamente un deterrente efficace. All’opposto si prevede invece che la prevista ritorsione di Israele sarà molto più severa della risposta chirurgica di aprile, quando Biden esortò Netanyahu ad “accontentarsi della vittoria” raggiunta. Ora è probabile che Tel Aviv lanci un forte contrattacco che potrebbe infliggere danni significativi agli obiettivi iraniani. Cosa che Washington assolutamente non vuole. In una dichiarazione immediatamente successiva all’attacco iraniano, Netanyahu ha promesso che ci saranno ritorsioni, affermando: “Teheran ha commesso un grave errore e ne pagherà le conseguenze. Il regime degli ayatollah non capisce quanto siamo disposti a difendere la nostra nazione e quanto siamo capaci di fare male ai nostri nemici”.
Al netto di tutto, la Repubblica Islamica non appare però disposta a sacrificare i principi, che ha seguito per decenni, della “pazienza strategica” e della difesa avanzata. Nella profonda e fondata convinzione che lo scontro debba essere mantenuto asimmetrico.
Cosa succederà ora
Per i motivi sopra descritti, con ogni probabilità l’Iran non trasformerà la sua guerra contro Israele in uno scontro aperto e diretto. Ha interesse vitale a mantenere asimmetrico il conflitto, lasciando che se ne occupino ancora i suoi satelliti nella penisola arabica. Hezbollah in primis. Anche in considerazione delle lacerazioni interne alla Repubblica islamica, dove l’avvento alla presidenza di Pezeshkian al posto del deceduto Ebrahim Raisi ha acuito uno scontro generazionale interno al Paese e anche alle élite politico-militari.
La vera incognita resta sempre Israele. L’intransigenza e la violenza che le frange più estreme del governo Netanyahu hanno dimostrato in questi mesi alimentano la paura dell’intera comunità internazionale. A cominciare dagli Usa, patron dello Stato ebraico ma invischiati in una congiuntura di profonda stanchezza imperiale per la sovraesposizione su molteplici fronti. Il piano del governo Netanyahu di far sorgere un “Grande Israele” dal fiume al mare porterà presto o tardi a stringere il cerchio sulla Cisgiordania, già radicalizzata dalla violenza dei coloni contro i residenti palestinesi. L’escalation anche in questo territorio porterà inevitabilmente all’aumento della rabbia e della radicalizzazione delle frange islamiste, in una guerra contro il terrorismo che non può essere vinta. Come vent’anni di guerre (perse) statunitensi hanno ampiamente dimostrato.