Perché l’Iran non ha (ancora) attaccato Israele e cosa può succedere

Da giorni si vive nell'allarme di un attacco imminente dell'Iran a Israele, considerato responsabile dell'uccisione del leader di Hamas Haniyeh. Ma la strategia frena Teheran dal rispondere direttamente. Più probabile la pista Hezbollah

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Attacco imminente, vendetta tremenda, escalation inevitabile. Da giorni il mondo occidentale vive la psicosi della grande offensiva dell’Iran nei confronti di Israele, imperdonabile responsabile dell’uccisione dell’ex leader politico di Hamas Ismail Haniyeh mentre si trovava a Teheran.

Un film già visto, una storia ritrita, che però giustamente desta forte preoccupazione visti gli arsenali in gioco. Finora però gli attacchi diretti sono stati pura scenografia, letteralmente telefonati, con le intelligence militari in costante dialogo per avvisare tempistiche e portata del raid aereo con droni e missili. Stavolta potrebbe essere diverso, certo, per via della componente irrazionale che, in tempo di guerra, fa saltare ogni logica tattica e strategica.

Proclami di guerra, ma nessuna escalation: cosa vogliono Iran e Israele?

Già una settimana fa l’annuncio della chiusura dello spazio aereo iraniano era stata data come prova principe di un attacco imminente a Israele. E invece niente. Ad aprile il maxi attacco con 300 droni e missili doveva essere l’apocalisse in terra. E invece niente. I blitz israeliani contro obiettivi in terra iraniana sono stati visti come la miccia definitiva per far esplodere il Medio Oriente. E invece niente. Perché né Israele né l’Iran hanno finora lanciato attacchi diretti su larga scala? Cosa li frena?

Cominciamo con un perché molto intuitivo, ma necessario: nessuno dei due Stati vuole l’escalation incontrollata. Israele perché è circondata da nemici e deve ancora vedersela col solo Hamas, sulla carta il più debole degli agenti di prossimità filo-iraniani riuniti nella cosiddetta Mezzaluna sciita (in dizione occidentale) o Asse della Resistenza: Hezbollah e Houthi. Il conflitto per Tel Aviv è già abbastanza largo, da nord (anche in Siria) a sud ma anche verso l’interno della Penisola Arabica. Lo Stato ebraico si dice pronto a impegnarsi su sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq e Yemen. E il settimo è l’Iran.

Nelle ultime settimane lo Stato ebraico ha voluto mostrare i muscoli, facendo vedere al mondo e in particolare agli Stati Uniti di essere in grado di gestire contemporaneamente i tre grandi fronti di guerra: a Gaza, in Libano e in Yemen. Ma si è trattato di attacchi estemporanei, che non hanno spostato gli equilibri del conflitto più ampio. E che non hanno impensierito l’Iran, al contrario dello smacco simbolico dell’uccisione di Haniyeh a Teheran, onta che il popolo persiano non può davvero sopportare. Eppure neanche la Repubblica Islamica ha interesse nel compiere un attacco diretto allo Stato ebraico.

Nella pratica militare, l’escalation si verifica quando una o più parti di una crisi aumentano l’intensità o espandono la portata dei loro sforzi bellici, violando le regole non scritte di un conflitto. Ad aprile, ad esempio, lo Stato ebraico ha intensificato lo scontro uccidendo diversi membri di alto livello del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a Damasco. Un attacco insolito, sia per il grado dei militari uccisi sia per il fatto che aveva come obiettivo una struttura diplomatica. Dopo la risposta scenografica iraniana, Israele è riuscito a risolvere la crisi senza aggravare ulteriormente la situazione, ma per farlo ha dovuto studiare un attacco altamente calibrato che trasmettesse una minaccia senza violare le regole non scritte che hanno governato il conflitto con Teheran negli ultimi decenni.

Le cinque possibili risposte da parte dell’Iran

L’Iran ha già dimostrato in più occasioni di riuscire a stemperare l’ondata emotiva provocata dagli attacchi subiti da parte del suo nemico esistenziale. Come dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi, svolta cruciale per la Repubblica Islamica che però non cambiò di una virgola la sua politica estera. Proprio perché gli imperativi strategici di una potenza imperiale vengono prima di ogni altro dossier. Un principio che dobbiamo applicare anche agli attuali segnali di escalation imminente, pena il ritrovarci costantemente travolti dagli eventi, senza memoria e senza studio, dunque senza futuro. Stringendo, Teheran ha cinque principali opzioni di risposta:

  1. non fare nulla, proseguendo sul terreno della propaganda anti-israeliana e passando come l’unica parte ragionevole e desiderosa di pace che vuole evitare a tutti i costi l’escalation;
  2. intraprendere azioni di basso profilo come attacchi informatici;
  3. eseguire una o più uccisioni mirate ai danni di Israele;
  4. lanciare attacchi di fuoco indiretto;
  5. ordinare ai suoi clientes di condurre incursioni in terra israeliana.

Le prime due opzioni sono le meno probabili, almeno come operazioni singole che ne escludono altre. Il leader supremo dell’Iran ha già messo a rischio la propria reputazione e qualsiasi mossa percepita come una “non risposta” sarebbe politicamente inaccettabile. Le uccisioni mirate contro gli israeliani sarebbero l’opzione meno grave per una potenziale escalation, ma Teheran deve affrontare ostacoli sia politici sia pratici. Omicidi mirati contro una figura simile ad Haniyeh in Israele probabilmente fornirebbero una risposta sufficiente senza arrivare a un’escalation drammatica, ma una figura del genere in Israele non esiste.

Lo Stato ebraico non ha il tipo di alleati non statali che che presentano bersagli molto simili a Haniyeh, quindi Teheran dovrebbe probabilmente intensificare il conflitto prendendo di mira funzionari politici o militari israeliani. Per quanto riguarda i limiti pratici per una simile mossa, non ci sono prove di infrastrutture iraniane segrete in Israele paragonabili a quelle necessarie per uccidere Haniyeh. L’Iran potrebbe attaccare figure del governo israeliano al di fuori di Israele, come Teheran e i suoi satelliti hanno ripetutamente fatto negli ultimi decenni. Tali attacchi rischiano però anche di intensificare il conflitto, diffondendolo in nuovi teatri geografici e affrontano problemi pratici propri: un’uccisione mirata o un bombardamento di un’ambasciata richiederebbero tempo per essere pianificati, indebolendo il segnale deterrente che l’Iran cercherà di inviare.

La Repubblica Islamica potrebbe allora condurre attacchi di fuoco indiretto attraverso i suoi partner non statali come Hezbollah, come accaduto finora insomma. Infine, potrebbe spingere i suoi satelliti a condurre incursioni di terra più convenzionali in Israele, come quella di Hamas del 7 ottobre 2023. Questa è l’opzione più esplosiva di tutte, che tuttavia l’Iran non deve perseguire se è seriamente intenzionato a evitare la guerra aperta e totale.

Perché Teheran non vuole la guerra diretta

Dal punto di vista tattico, l’Iran preferisce continuare nella sua proxy war a bassa intensità con frequenti e contenuti combattimenti, che tengano sotto costante pressione Tel Aviv, utilizzando i propri satelliti fondamentalisti nella Penisola Arabica. Al netto dei consueti slanci propagandistici, come l’appello del ministro degli Esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, ai Paesi islamici affinché “sostengano il diritto della Repubblica Islamica a difendersi da qualsiasi atto di aggressione, al fine di garantire la stabilità e la sicurezza dell’intera regione”. Paesi musulmani (ben 57) che, riuniti nella voce congiunta dell’Organizzazione per la Cooperazione islamica (Oic), hanno determinato senza appello che Israele ha la piena responsabilità nell’uccisione di Haniyeh.

Dal punto di vista strategico, invece, l’Iran vuole e deve distruggere i tentativi di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e monarchie arabe, cioè il mondo musulmano (sunnita). Un’operazione complessa, molto difficile da portare a termine, che si concretizza nel sabotaggio degli ormai celebri Accordi di Abramo che vedono il riavvicinamento fra Stato ebraico e Arabia Saudita in particolare.

Finora Teheran ha evitato un attacco diretto a Israele, costruendo appositamente attorno al Grande Satana proprio quell’Asse della Resistenza formato da milizie sciite, e dunque filo-iraniane, che condividono l’agenda anti-ebraica dell’impero persiano. Come certificato dalle dichiarazioni del nuovo presidente Massoud Pezeshkian il quale, durante una telefonata con Emmanuel Macron, ha ricordato come uno dei principi fondamentali dell’Iran sia quello di “evitare la guerra e cercare di stabilire la pace e la sicurezza nel mondo”.

Proviamo a dare un’ulteriore pennellata, per capire meglio il momento dell’Iran. Distratto da una profonda crisi interna, con una nuova leadership che deve imporsi come guida di un popolo velleitario, il Paese potrebbe anche impegnarsi con meno forza nella lotta su più fronti contro Israele. Anche alla luce di una serie di segnali di percepita debolezza che vanno avanti da mesi, nel segno della violenza fondamentalista. A cominciare dal 3 gennaio, quando un gruppo di jihadisti ha ucciso almeno 84 persone in due esplosioni vicino alla tomba del generale Qassem Soleimani, capo della Forza d’élite iraniana Quds.

Il mese precedente, il gruppo terroristico sunnita Jaish al-Adl aveva invece ucciso 11 agenti di polizia iraniani. L’Iran, nel disperato tentativo di mostrarsi forte, ha lanciato missili contro il Pakistan, dicendo che stava prendendo di mira Jaish al-Adl. Ma il Paese confinante, dotato di armi nucleari, ha risposto per le rime con missili e aerei da combattimento, compiendo il primo bombardamento su suolo iraniano dalla guerra con l’Iraq negli Anni Ottanta. Mesi prima dell’attacco telefonato di Israele, dunque.

Già allora il “grande bluff” della potenza iraniana era stato dunque scoperto, con Teheran che ha accettato di stemperare la contesa col Pakistan. La credibilità imperiale di Teheran è stata ulteriormente compromessa dal conflitto contro Israele e potrebbe dunque subire una nuova spallata dalla lotta interna per il potere. Un ruolo importante sarà giocato dai gruppi di fatto più potenti del Paese: le Guardie Rivoluzionarie e gli influenti esponenti religiosi di Qom.

Quanto è probabile un attacco diretto dell’Iran a Israele?

Secondo molti analisti, lo smacco subìto col caso Haniyeh potrebbe far scattare la rappresaglia diretta di Teheran, anche se finora lo scontro con lo Stato ebraico è stato delegato alla triade Hamas-Hezbollah-Houthi. Dal punto di vista del sentimento popolare e della gloria, elementi primari in imperi così antichi, l’Iran ha necessità di rispondere all’attacco di Israele. Necessità politiche interne, dunque. In questo caso, la risposta dovrebbe essere più incisiva dell’attacco missilistico e dei droni del 13 aprile, per soddisfare i sostenitori della linea dura ai vertici di Pasdaran e Repubblica Islamica. Ma anche per il bisogno strategico di scoraggiare ulteriori attacchi israeliani sul suo territorio. Come fare dunque a rispondere con forza evitando l’escalation e una guerra più ampia?

Se attacco sarà, lo scenario più probabile vedrebbe allora l’iniziativa proprio degli adiacenti miliziani libanesi, i quali devono ancora scatenare il loro reale potenziale bellico, almeno 10 volte superiore a quello di Hamas, che da solo sta dando filo da torcere a Tel Aviv, e molto più equipaggiato e pronto alla guerra dello stesso esercito libanese. Ne sono convinti anche i funzionari israeliani, sospettando un raid nei prossimi giorni. Come riferito dall’emittente israeliana Channel 12, citata dal Times of Israel, Tel Aviv ha trasmesso a Hezbollah e Iran che qualsiasi danno ai civili nello Stato ebraico per la loro azione di rappresaglia sarà “una linea rossa che porterà a una risposta sproporzionata”.

La pista Hezbollah

Anche Hezbollah, dal canto suo, ha una propria agenda al di là di quella iraniana. Proseguendo lo scontro a bassa intensità, i miliziani libanesi cercano di minare ulteriormente l’immagine di Israele come grande potenza securitaria del Medio Oriente. A giugno, per la prima volta, i fondamentalisti sciiti hanno celebrato in lungo e in largo di essere riusciti a respingere l’attacco di un jet israeliano sparando missili terra-aria in direzione del velivolo militare nemico, che aveva violato lo spazio aereo del Paese.

Gli Stati Uniti, sponsor di Israele del quale faticano sempre più a contenere l’intransigenza violenta, sanno benissimo che una “piccola guerra regionale” non è un’ipotesi realistica. Una delle preoccupazioni più vibranti di Washington è che il Libano potrebbe essere inondato di combattenti delle milizie filo-iraniane presenti in Siria, Iraq e persino nello Yemen che vorrebbero unirsi ai combattimenti. Un funzionario dell’esercito israeliano ha dichiarato che una guerra con Hezbollah o un’operazione limitata in Libano avrebbero “enormi implicazioni” per Tel Aviv in termini di costi di vite umane e di risorse da dirottare e impiegare.

Al di là della possibilità (molto bassa al momento) di attacco diretto iraniano, dovremmo preoccuparci molto anche della risposta dei soli Hezbollah. Sostenuto dall’Iran, il “Partito di Dio” rappresenta di fatto la più grande minaccia militare per Israele. Come ha dimostrato nel 2006, quando resistette all’assalto a tutto campo di Tel Aviv, col quale è in stato di guerra da decenni, da quando lo Stato ebraico lanciò una devastante invasione nel 1982 inviando carri armati fino alla capitale Beirut. Da allora il gruppo libanese non ha fatto altro che rafforzarsi, accumulando armi sempre più sofisticate ed esperienza e combattendo al fianco del governo siriano. E incrementando anche il suo risentimento verso lo Stato ebraico attraverso la “dottrina Dahiya” di guerra asimmetrica – dal nome di un quartiere di Beirut controllato da Hezbollah – che prevede di prendere di mira le infrastrutture civili.

Nonostante i proclami e le minacce odierne, Israele non avrebbe l’intenzione di invadere la parte di Libano controllata da Hezbollah. E, dall’altro lato della barricata, anche i fondamentalisti sciiti hanno tutto l’interesse a non accelerare l’escalation col nemico confinante. In altre parole a Iran e Hezbollah conviene che il conflitto resti a bassa intensità e tenga impegnato Israele a lungo, mentre dall’altra parte c’è più urgenza di inasprire il conflitto ma manche l’opportunità e la forza necessarie.