La modernità di Cesare Beccaria sulla pena di morte: Stato in guerra contro il singolo

Il pensiero di Cesare Beccaria in merito alla pena di morte. Le parole dell'illuminista italiano nel suo "Dei delitti e delle pene", ancora modernissimo

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Luca Incoronato

Giornalista

Giornalista pubblicista e copywriter, ha accumulato esperienze in TV, redazioni giornalistiche fisiche e online, così come in TV, come autore, giornalista e copywriter. È esperto in materie economiche.

Quando si parla di Cesare Beccaria, celeberrimo giurista e filosofo, non si può fare a meno di citare la sua opera più importante, Dei delitti e delle pene. Massimo esponente dell’Illuminismo in Italia, si espresse in maniera netta e perentoria contro la pena di morte, evidenziandone gli aspetti effettivi e le motivazioni che si celano nella sua ombra. Un testo ancora oggi influente come pochi nella sfera del diritto penale.

Cesare Beccaria: analisi della pena di morte

La formazione scolastica di Cesare Beccaria, nato a Milano nel 1738, lo ha visto laurearsi in Giurisprudenza. Un uomo ricco di passione, cacciato di casa dal padre perché scelse di seguire il cuore, sposando Teresa Blasco. In questa fase si avvicinò alle Lettere persiane di Montesquieu, che gli aprirono le porte dell’Illuminismo.

Ebbe così inizio una rivoluzione personale e culturale, considerando il peso ricoperto da Beccaria per la società italiana del tempo e non solo. Parte del cenacolo dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, fu proprio da quest’ultimo, protettore delle carceri, che ricevette probabilmente l’ispirazione per il suo attacco diretto alla pena di morte.

Leggere le parole di Cesare Beccaria oggi è a dir poco sorprendente. Ci si rende infatti conto dell’estrema modernità del pensiero del celebre giurista. Al tempo stesso si potrebbe individuare un’arretratezza nei nostri modi, tenendo conto del fatto che la pena di morte ancora esiste e quanto oggettivamente sia illusorio pensare di debellarla.

Senza alcun timore di sferrare attacchi alle leggi del suo tempo e al suo governo, l’illuminista meneghino considerava la condanna a morte di un detenuto alla stregua di una guerra condotta dall’intera forza dello Stato contro un singolo individuo, di colpo inerme. Accettare che ciò potesse accadere era contrario ai diritti umani della vita stessa.

Nel suo Dei delitti e delle pene leggiamo come il bene dell’esistenza di un singolo essere umano non possa in alcun caso essere messa a disposizione del volere dello Stato, in grado di disporne come meglio preferisce: “Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità”.

Proprio in merito all’effettiva utilità dello spauracchio della morte, Beccaria spiega quanto fosse ben peggiore la prospettiva dell’ergastolo. Quest’ultimo, infatti, è una sofferenza ripetuta nel tempo, a differenza del male definitivo che, per quanto tremendo e spaventoso, si risolve in un’unica azione, l’ultima. Chi pensa alla pena di morte come soluzione finale dei propri gesti, inoltre, è maggiormente predisposto alla sfiducia nelle istituzioni e, quindi, ha una maggiore propensione verso il delitto, scriveva il nonno di Alessandro Manzoni.

Addio alle leggi divine

Parlare di pena di morte, e quindi di fine della vita imposta ai detenuti, avrebbe spinto altri a fare ricorso al tema della religione. Manca invece una motivazione spirituale nella disamina di Cesare Beccaria.

Non mira a evidenziare come il delitto compiuto non debba essere identificato come offesa alla suprema legge di Dio. Si resta nella sfera pubblica e in questo ambito la religione non ha ragion d’essere. Il suo spazio è riservato nella coscienza individuale dei credenti.

Un pensiero rivoluzionario, quello del celebre illuminista, che portò il libro, Dei delitti e delle pene, a essere classificato come proibito, al limite dell’eresia, anche perché in queste pagine si sanciva la profonda distinzione tra reato e peccato.