Cosa succede ai contributi versati dal contribuente, in concomitanza ad un rapporto di lavoro, ma non validi ai fini del riconoscimento della pensione? Prima di rispondere a questa domanda, ricordiamo che i contributi sono quote della retribuzione o del reddito di lavoro che servono per finanziare le prestazioni previdenziali e assistenziali previste dalla legge. Di solito, il loro pagamento è obbligatorio e inizia quando si avvia un’attività lavorativa o quando si verificano altre condizioni specificate dalla legge. Gli enti di previdenza sono responsabili della riscossione dei contributi, dell’erogazione delle prestazioni e del controllo dell’applicazione corretta delle norme. I contributi si suddividono in due categorie: previdenziali, obbligatori per ottenere la pensione e assistenziali. Questi ultimi sono versati all’Inail o all’Inps per ricevere una copertura relativa ai rischi legati agli infortuni e alle malattie professionali, all’invalidità e alla malattia.
Cosa sono i requisiti minimi
Il dibattito sulle questioni irrisolte riguardanti le pensioni e i requisiti necessari per accedervi è sempre vivo.
A volte, infatti, nonostante si lavori per un lungo periodo, i contributi versati all’INPS potrebbero non essere sufficienti per ottenere un trattamento previdenziale completo. Si tratta dei cosiddetti contributi “silenti”, che pur essendo presenti nelle casse dell’istituto previdenziale, non sono adeguati per ricevere alcuna forma di beneficio. In pratica, si verifica una situazione in cui l’INPS riceve contributi dagli iscritti senza restituire alcun vantaggio in cambio. Oggi proveremo ad affrontare il caso dei contributi versati, potenzialmente validi ai fini pensionistici, che non danno diritto alla pensione.
Una panoramica sui contributi
La normativa è chiara: coloro che hanno versato i contributi durante il loro impiego, ma non hanno soddisfatto i requisiti minimi per ottenere la pensione al termine del rapporto di lavoro, non hanno diritto a nessun rimborso. Numerose sentenze della Corte di Cassazione supportano questa disposizione. L’INPS, infatti, non è vincolato a obblighi nei confronti di tali contributori, poiché non sono stati raggiunti i requisiti minimi previsti per il beneficio pensionistico.
L’ordinamento italiano, a proposito di accesso alla pensione di vecchiaia, stabilisce che, per avere diritto a ricevere l’assegno pensionistico bisogna:
- aver maturato almeno 20 anni di contribuzione;
- aver raggiunto l’età pensionabile (pari a 67 anni nel 2019).
Vi sono però dei casi in cui i contribuenti possono ricevere un trattamento diverso, se e quando si verificano delle particolari condizioni che danno diritto – appunto – alla pensione anticipata. Determinate categorie di lavoratori (come i precoci o quelli che hanno svolto attività usuranti per un determinato periodo della loro vita) in presenza di determinati requisiti, diversi da quelli standard, possono beneficiare dell’uscita anticipata dal mondo del lavoro e, di conseguenza, andare in pensione prima del tempo.
I contributi che devono considerarsi “persi” (ovvero quelli versati ma non validi ai fini pensionistici) sono:
- i contributi che il lavoratore ha devoluto alle casse dello Stato (e a quelle dell’Inps) per un periodo minore ai 20 anni;
- i contributi che il lavoratore ha versato per un arco di tempo inferiore ai 20 anni e che, allo stesso tempo, non possono essere sfruttati ai fini del riconoscimento di pensionamento anticipato.
Se un lavoratore non è in possesso dei requisiti minimi sopra elencati, sia nel caso di pensione di vecchiaia che in caso di pensione anticipata, non potrà rivolgersi all’Inps per avere il “rimborso” dei contributi già versati e persi. Intanto, i pensionati attendono con trepidante attesa la quattordicesima in arrivo che però non sarà per tutti.