Mentre il turismo italiano continua a viaggiare su numeri record, con previsioni per l’estate sempre più incoraggianti per l’economia del comparto, è in atto una trasformazione che sta cambiando il volto dell’ospitalità. Secondo Federalberghi, dal 2008 a oggi il numero di alberghi in Italia è diminuito del 5,5%, passando da 34.000 a circa 32.000 strutture ufficialmente censite dall’Istat. Nello stesso arco temporale, però, gli annunci italiani su Airbnb — partiti da una cinquantina — sono esplosi a oltre 600.000, con una crescita vertiginosa degli affitti brevi pari a +1.153.746%.
Una cifra che colpisce non solo per la sua entità, ma anche per ciò che racconta: una rivoluzione silenziosa, che ha trasformato radicalmente il modo in cui si viaggia, si soggiorna e si vive il turismo in Italia. E che solleva oggi interrogativi non più rinviabili su regolamentazione, sostenibilità e tenuta del sistema.
Il numero di affitti brevi supera quello degli alberghi in Italia
Nel 2010 il fenomeno degli affitti brevi era considerato una novità interessante, spesso associata a un turismo giovane, esperienziale e “diverso” dal modello tradizionale. Oggi è un’industria globale che, solo in Italia, supera per quantità gli alberghi ufficiali di quasi venti volte.
La crescita è stata trainata da molteplici fattori: l’innovazione digitale, la flessibilità dell’offerta, la possibilità per i proprietari di monetizzare seconde case o stanze libere. Ma anche da una progressiva deregolamentazione, o meglio, da una mancanza di regole armonizzate a livello nazionale. In questo scenario, le piattaforme online — Airbnb in testa — hanno trovato terreno fertile per espandersi, ridefinendo non solo il concetto di accoglienza, ma anche quello di abitabilità urbana.
L’allarme di Federalberghi
Non stupisce quindi che Federalberghi alzi i toni. “Senza ritegno” è il giudizio di Alessandro Nucara, direttore generale dell’associazione, in risposta a un recente comunicato stampa di Airbnb che attribuisce agli alberghi la colpa del fenomeno dell’overtourism, ovvero del sovraffollamento turistico in alcune destinazioni.
Nucara risponde con i numeri: nel 2008 gli alberghi erano 34.000, oggi sono 32.000. Gli annunci su Airbnb erano 50, oggi superano i 600.000. Il parallelismo è chiaro: mentre l’offerta alberghiera si contrae, quella extra-alberghiera esplode. Una dinamica che — per Federalberghi — sta alterando le regole del gioco, erodendo quote di mercato, ma soprattutto generando distorsioni a livello urbano, fiscale e occupazionale.
Il nodo delle città d’arte
Una delle accuse mosse da Airbnb è che gli alberghi siano responsabili del congestionamento turistico nei centri urbani. Ma a smontare questa tesi, secondo Federalberghi, è il rapporto redatto da Nomisma nel novembre 2024, commissionato proprio da Airbnb. Nel documento si legge chiaramente che “il fenomeno degli affitti a breve termine si concentra principalmente in alcune aree a forte vocazione turistica, come i centri storici”.
Una contraddizione che Federalberghi sottolinea con forza, accusando Airbnb di tentare una narrazione che sposta le responsabilità senza affrontare le criticità del proprio modello di business. In effetti, da Roma a Venezia, da Firenze a Napoli, il boom degli affitti brevi ha contribuito alla trasformazione (e spesso alla desertificazione) dei centri storici, dove interi edifici sono stati convertiti in micro-strutture turistiche, sottraendo alloggi alla residenza stabile.
Le proposte per regolamentare gli affitti brevi
Il tema tocca corde profonde per l’economia italiana. Il turismo rappresenta il 13% del PIL nazionale, ma la crescita incontrollata, se non governata, può trasformarsi in un boomerang, con effetti sulla qualità della vita dei residenti, sui prezzi degli affitti, sulla sostenibilità dei servizi e sull’identità stessa dei luoghi.
La questione, dunque, non è se sia giusto o sbagliato scegliere un Airbnb anziché un albergo, ma quali regole e garanzie debbano valere per tutti gli operatori del settore. Per Federalberghi, la risposta passa da tre direttrici fondamentali, ovvero:
- parità fiscale, evitando che molti affitti brevi sfuggono ai controlli fiscali o applichino regimi agevolati pensati per le locazioni private, anche se usati per attività chiaramente imprenditoriali;
- sicurezza e qualità, estendendo alle case in affitto ai turisti i controlli a cui gli alberghi sono sottoposti, compresi quelli igienico-sanitari, antincendio e strutturali;
- limiti e regolamenti, per evitare che interi quartieri diventino zone esclusivamente tusistiche, perdendo abitanti, scuole, botteghe e servizi.
Seguendo, in questo senso, alcune città italiane che stanno iniziando a muoversi. Firenze, Milano e Bologna – per esempio – hanno già avviato regolamenti per limitare gli affitti brevi nelle zone centrali.
Inoltre, a livello europeo, anche la Commissione Ue sta lavorando a un regolamento (in fase di attuazione) che impone alle piattaforme di condividere i dati con le autorità locali, per garantire trasparenza e controllo.
Ma serve una regia nazionale. Serve una legge che, come chiede Federalberghi da anni, stabilisca cosa è “locazione breve” e cosa è “struttura ricettiva”. E servono strumenti urbanistici per garantire il diritto alla casa, la qualità del lavoro e la tenuta delle comunità locali.