Mentre il dibattito pubblico è concentrato sul caro vita, sull’inflazione e sulle sfide della transizione ecologica, un’altra crisi – più silenziosa ma non meno preoccupante – sta investendo le campagne italiane. Si tratta della crisi climatica, che colpisce duramente la zootecnia e la produzione agroalimentare nazionale come quella del latte.
Il nuovo allarme lanciato da Coldiretti, attraverso il primo monitoraggio sull’ondata di calore che sta stringendo la Penisola, non lascia spazio a dubbi: la produzione è crollata fino al 30% in alcune regioni, mentre i costi di gestione per gli allevatori aumentano senza tregua.
Come e dove la crisi climatica sta mettendo a rischio la produzione di latte
Il settore lattiero-caseario è tra i più esposti agli effetti estremi del clima. In Lombardia, dove si concentra quasi il 50% della produzione nazionale di latte, il calo stimato è già del 10% medio, con picchi del 15%, pari a 1,8 milioni di litri di latte in meno al giorno. Una cifra allarmante se si considera che il latte rappresenta una delle principali materie prime dell’industria alimentare italiana, fondamentale per la produzione di formaggi Dop e altri derivati esportati in tutto il mondo.
A incidere sul calo sono il caldo e la necessità di garantire il benessere animale in condizioni sempre più difficili. Per tenere in vita la produzione, gli allevatori hanno provveduto a:
- attivare ventilatori e sistemi di doccette nelle stalle;
- aumentare i controlli sanitari;
- migliorare le diete con integrazioni di sali minerali e potassio;
- modificare la frequenza dei pasti per non sovraccaricare le mucche.
Tutto questo si traduce in un aumento sensibile dei costi di gestione, a fronte però di una produzione più bassa e quindi di ricavi potenzialmente inferiori.
La crisi è diffusa e sistemica: interessa colture, raccolti, allevamenti e disponibilità idrica. In Molise, Coldiretti registra un crollo della produzione di latte fino al 30%, in Puglia si assiste al dimezzamento delle rese di foraggio. In Sardegna la siccità è sempre grave, tanto che sono state sospese le irrigazioni dell’erba medica, compromettendo la catena alimentare zootecnica e riducendo la produzione lattiera..
Costi in aumento, margini in contrazione
I numeri parlano chiaro: la riduzione della produzione si accompagna a costi sempre più alti. L’energia necessaria per mantenere attivi ventilatori e sistemi di refrigerazione nelle stalle, l’acqua da acquistare per garantire idratazione e pulizia, i mangimi integrativi da somministrare agli animali. E tutto pesa sui bilanci delle aziende agricole, che devono fare affidamento su guadagni sempre più ridotti.
In molti casi, i margini di profitto si stanno assottigliando, se non azzerando. Gli allevatori italiani operano in un mercato dove i prezzi alla produzione sono spesso compressi dalla filiera di distribuzione e dai meccanismi internazionali, mentre la domanda interna è stagnante e la concorrenza estera è forte, soprattutto per il latte e i suoi derivati.
Cosa si rischia
La crisi della produzione di latte in Italia non è solo una questione agricola. È un tema economico e strategico nazionale. Il latte rappresenta una filiera chiave del Made in Italy agroalimentare, base per prodotti ad alta redditività e valore aggiunto come Parmigiano Reggiano, Grana Padano, mozzarella e formaggi tipici. Un crollo prolungato della produzione può compromettere l’autosufficienza nazionale, aumentare la dipendenza dalle importazioni e indebolire la competitività delle eccellenze italiane all’estero.
Inoltre, il calo produttivo può portare a una spinta inflazionistica dei prezzi al consumo, colpendo direttamente le famiglie. Se la produzione cala ma la domanda resta stabile, il risultato è un aumento dei prezzi di:
- latte fresco;
- yogurt;
- burro;
- formaggi e derivati.
A pagarne il costo maggiore sarebbero i consumatori meno abbienti, proprio in un momento in cui l’inflazione alimentare continua a salire.