Segnalare ciò che non va al lavoro è un compito delicato. Ci si espone direttamente per migliorare il funzionamento dell’intera azienda, o suoi reparti, e per offrire spunti di riflessione e consigli, oppure per proporre soluzioni concrete che rendano l’ufficio più efficiente, trasparente e sostenibile per tutti. Proprio la tutela dei cosiddetti whistleblower – i segnalatori, appunto – è oggi uno dei maggiori strumenti di trasparenza, legalità e corretto funzionamento degli uffici della Pubblica Amministrazione.
Eppure, in Italia, chi denuncia irregolarità o illeciti spesso paga un prezzo altissimo: isolamento, pressioni, demansionamenti, procedimenti disciplinari ritorsivi. La sentenza n. 951/2025 del tribunale di Bergamo ce lo conferma, e al contempo segna un passo avanti storico in questo ambito, non soltanto per l’esito del giudizio, ma anche e soprattutto per i principi affermati.
È una decisione destinata a fare scuola, perché chiarisce come deve funzionare davvero la protezione del segnalante e perché responsabilizza in modo innovativo gli uffici della Pa.
Indice
Tre anni di ritorsioni sul lavoro dopo la segnalazione
La vicenda al centro del giudizio riguardava un’agente di polizia locale che aveva denunciato ad Anac e Guardia di Finanza gravi irregolarità nella gestione di fondi pubblici, nelle indennità e nei premi di produttività.
Segnalazioni sicuramente pesanti, tanto da determinare, nei confronti della donna, un cambio radicale dell’ambiente di lavoro, che era diventato quasi un incubo a occhi aperti.
Ricapitolando i fatti di causa accertati, la sentenza di cui si discute riferiva di procedimenti disciplinari privi di fondamento, di demansionamento e di assegnazione a compiti marginali. Allo stesso tempo, l’agente era stata destinataria di una valutazione professionale negativa e in contrasto con la sua storia lavorativa.
Non solo. Anche i colleghi si erano schierati contro di lei, con insulti, ostilità e con la mancata consegna di strumenti utili al lavoro. I gravi problemi di isolamento sul lavoro avevano spinto la donna a rivolgersi al giudice, per ristabilire giustizia.
Da parte sua, l’amministrazione si era difesa negando qualsiasi intento vessatorio e sostenendo, anzi, che le misure adottate fossero legittime e dovute a esigenze organizzative. Tuttavia, il giudice chiamato a decidere sul caso aveva ricostruito i fatti in modo completamente diverso.
L’inversione dell’onere della prova nel whistleblowing
In casi come questo, la magistratura ha spiegato che uno dei punti chiave è l‘inversione dell’onere della prova, prevista dalla legge proprio in materia di segnalazioni sui luoghi di lavoro. Ecco come funziona:
- quando un lavoratore segnala illeciti e, in seguito, riceve provvedimenti peggiorativi e ritorsivi, non è tenuto a provare in giudizio che si tratta di atti ingiustificati e ostili;
- è l’amministrazione che deve dimostrare che le sue decisioni sono totalmente indipendenti dalla segnalazione e che, quindi, sono calibrate ai fatti concreti e al comportamento del destinatario.
Questa sentenza è una svolta perché riconosce questo fondamentale principio giuridico e, soprattutto, lo fa, dopo anni di inerzia della giurisprudenza, che faceva gravare sui dipendenti il difficile compito di provare, con chiarezza, la gravità dei gesti dei datore.
Il tribunale di Bergamo volta pagina e, capovolgendo questa prassi, spiega che se un provvedimento arriva subito dopo la segnalazione — e non ci sono ragioni oggettive dimostrate dal datore — è ritorsivo. Parallelamente, chi segnala un problema, un’irregolarità o un illecito va tutelato perché è suo diritto attivarsi in questo senso, senza patire conseguenze.
L’annullamento degli atti lesivi e il risarcimento dei danni morali
Gli atti ritorsivi possono e devono essere dichiarati nulli dal giudice, perché adottati in violazione delle tutele del whistleblower e della sua dignità di lavoratore.
E così ha fatto il tribunale di Bergamo, annullando tutti i procedimenti disciplinari privi di base reale, la dequalificazione e la valutazione annuale artificiosamente negativa. Solo il mero ritiro dell’arma di servizio è stato ritenuto estraneo alla logica ritorsiva, perché giustificato da motivazioni sanitarie.
Ma la sentenza n. 951 è interessante anche perché si sofferma sull’art. 2087 Codice Civile, che richiama le responsabilità del datore in caso di ambiente ostile e danni morali presunti.
Questo è un altro punto molto importante: l’azienda o la Pubblica Amministrazione deve sempre impegnarsi a garantire condizioni sicure, dignitose e rispettose per il dipendente.
Pertanto, anche senza un vero e proprio disegno persecutorio unitario — tipico dei segnali del mobbing — se il datore permette, o resta passivo innanzi a un ambiente, nel suo insieme, ostile e stressante, è automaticamente responsabile.
Ma non è finita qui. Il giudice ha riconosciuto a favore della lavoratrice un danno morale presunto. Infatti, la sofferenza psicologica derivante da anni di isolamento, umiliazioni e cattiverie non ha bisogno di certificazioni mediche per essere provata in aula.
I whistleblower tutelati dalla legge in caso di mobbing
Con la sentenza n. 951 appena vista, ha conseguenze molto concrete per tutti gli uffici della PA. Infatti, in linea con le norme di tutela di cui alla legge italiana e comunitaria, il giudice lombardo riconosce — in modo innovativo — il diritto al risarcimento dei danni morali, in capo a chi sia penalizzato per aver segnalato irregolarità e illeciti.
In particolare, in tema di protezione del segnalante o whistleblower, è di riferimento è l’art. 54 bis del d. lgs. 151/2001 come pure, in tempi più recenti, il testo del d. lgs. 24/2023 che ha recepito la direttiva Ue 2019/1937.
Il segnalatore non può essere lasciato solo perché, in sostanza:
- ogni ambiente di lavoro degradato è di per sé idoneo a generare gravi conseguenze per il dipendente;
- il danno può essere provato con presunzioni basate sull’esperienza quotidiana e comune;
- la dignità del lavoratore whistleblower è parte sostanziale dell’interesse pubblico al buon funzionamento della PA.
Inoltre, le valutazioni di performance — come per chi lavora nelle forze dell’ordine — non possono essere ritorsive. Se le pagelle annuali non sono più uno strumento neutro, perché usate per penalizzare il segnalante, divengono nulle. E ogni decisione, disciplinare o meno, deve essere tracciata e motivata.
Infatti, come detto sopra, grazie all’inversione dell’onere della prova, le PA devono documentare in modo trasparente ogni scelta organizzativa. In mancanza, si espongono all’azione legale dei dipendenti, che possono così ottenere — oltre alla cancellazione degli atti ritorsivi — un risarcimento in denaro.