Rifiuti il full time? Ecco cosa rischi: la sentenza fa discutere

Quando il rifiuto di passare da part time a full time (o viceversa) può essere causa di licenziamento per giustificato motivo

Foto di Mauro Di Gregorio

Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

Il lavoratore part time che rifiuti di passare a tempo pieno (o viceversa) è licenziabile, a patto che l’azienda stia effettivamente affrontando una situazione economica tale da giustificare una revisione dell’organizzazione del personale. A stabilirlo è la Cassazione con due decisioni: l‘ordinanza 12244 del 9 maggio 2023 e la sentenza n. 29337/2023.

Da part time a full time (e viceversa)

In via generale occorre ricordare che l’art. 8, comma 1, del D.Lgs. 81/2015 afferma che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Al netto di tale considerazione generale, il datore di lavoro ha però la facoltà di procedere al licenziamento individuale di un dipendente per giustificato motivo oggettivo qualora, ad esempio, venga soppresso il suo ruolo in organigramma, vengano ridisegnate le mansioni aziendali, ecc…
Per non incorrere in un ordine di reintegro derivante da un licenziamento illegittimo, il datore di lavoro deve dimostrare la non esistenza di altre posizioni di lavoro equivalenti in azienda dove poter spostare il lavoratore secondo un criterio orizzontale.

Ma non solo: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”, come recita l’articolo 2103 del codice civile.

A chi spetta l’onere della prova

In caso di licenziamento l’onere della prova spetta ad datore di lavoro, che dovrà dimostrare di essere stato messo con le spalle al muro data l’impossibilità di ricollocare il lavoratore per mutate esigenze aziendali.

La sentenza più recente, la n. 29337/2023 della Corte di Cassazione civile, ribadisce che il rifiuto del lavoratore part time di passare a un rapporto di lavoro a tempo pieno può giustificare il suo licenziamento se il cambio delle ore lavorate è l’unica soluzione percorribile dall’azienda. Il caso concreto riguarda il rifiuto di un dipendente con contratto da 20 ore settimanali di passare a un tempo pieno. Rifiuto che ha fatto scattare il licenziamento, la cancellazione del ruolo in organico della lavoratrice cacciata e l’assunzione di un nuovo lavoratore.

La lavoratrice ha impugnato il licenziamento sostenendo che l’aumento del carico di lavoro per l’espansione del parco clienti non giustificava l’eliminazione del suo posto e l’assunzione di un’altra figura a tempo pieno. La lavoratrice aggiungeva inoltre che il suo allontanamento era una ritorsione per aver rifiutato la proposta di cambiare orario di lavoro.

Il tribunale ha rigettato il ricorso dando ragione all’azienda, mentre la corte d’Appello ha ribaltato la decisione di primo grado dichiarando nullo il licenziamento, con obbligo di reintegro e relativo indennizzo.

Nel terzo grado di giudizio, la Cassazione ha annullato la decisione d’appello favorevole alla lavoratrice e ha rimandato la decisione alla corte in diversa composizione.

Il motivo: secondo la Cassazione la corte d’Appello non ha correttamente tenuto conto del principio secondo il quale il datore di lavoro è tenuto a dimostrare le effettive esigenze economiche e organizzative alla base del cambio di orario lavorativo e l’esistenza del nesso causale tra le esigenze di rimodulazione oraria e il licenziamento. La Cassazione ha poi evidenziato che il presunto carattere ritorsivo del licenziamento non è provato.

In tempi recenti ha fatto discutere anche un’altra sentenza della Cassazione relativamente al clima aziendale.