Un recente intervento della Cassazione ha riportato al centro dell’attenzione un principio fondamentale: in caso di infortunio sul lavoro, il datore non può limitarsi a fornire ai dipendenti i dispositivi di protezione individuale, ma deve anche vigilare sul loro effettivo utilizzo e garantire che l’ambiente di lavoro sia sicuro e protetto, sotto ogni profilo. Non può quindi presumere che i dipendenti lavorino sempre coscienziosamente, riducendo al minimo i rischi legati alle mansioni che svolgono.
Vediamo insieme gli aspetti chiave della pronuncia 26021/2025 della Suprema Corte, perché, oltre a decidere lo specifico caso concreto, è di monito per la generalità delle aziende e, al contempo, agevola l’iniziativa legale dei dipendenti.
Indice
Il caso dell’infortunio all’occhio di un operaio
La vicenda sottoposta all’attenzione dei giudici di piazza Cavour riguarda un lavoratore impiegato come trafiliere presso un’azienda metalmeccanica.
Come ricostruito nel corso del processo, durante le operazioni di taglio di un tondino di ferro con una cesoia, l’uomo era stato colpito da un frammento metallico che gli aveva provocato una gravissima lesione all’occhio sinistro, con conseguenze permanenti accertate in ospedale.
In seguito all’incidente, il dipendente aveva deciso di intraprendere un’azione giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti, ritenendo il datore di lavoro responsabile ai sensi dell’art. 2087 del Codice Civile, norma che impone l’obbligo di garantire condizioni di lavoro sicure e salubri.
In primo grado, il Tribunale aveva respinto la domanda risarcitoria, ritenendo che l’indennizzo riconosciuto dall’Inail coprisse integralmente il danno subito, escludendo dunque la possibilità di ottenere il cosiddetto danno differenziale.
La Corte d’appello, pur escludendo la condanna alle spese in considerazione della complessità della materia e della giurisprudenza non sempre uniforme, aveva confermato la decisione di primo grado.
Secondo i giudici di secondo grado, infatti, il lavoratore non aveva fornito prova della responsabilità dell’azienda in relazione all’infortunio, non avendo dimostrato con precisione la dinamica dell’accaduto né contestato in modo specifico la carenza di vigilanza sull’utilizzo dei dispositivi di protezione, in particolare degli occhiali.
A fronte dell’esito sfavorevole del giudizio d’appello, al lavoratore non era rimasta altra scelta che ricorrere in Cassazione.
La svolta della Cassazione e gli obblighi dell’azienda
La Suprema Corte, chiamata a mettere la parola fine alla questione, ha ribaltato la lettura dei precedenti giudici, smontandone in sostanza il ragionamento logico-giuridico e riconoscendo, in sostanza, una maggior tutela al dipendente infortunato.
Questi i punti chiave stabiliti dai giudici di piazza Cavour, utili anche a orientare nei tanti possibili casi simili:
- la responsabilità di cui all’art. 2087 Codice Civile è di natura contrattuale, dunque il datore ha sempre il dovere legale di proteggere l’integrità psicofisica del dipendente;
- il lavoratore che si è fatto male nello svolgimento delle mansioni deve provare il fatto dell’infortunio e le sue conseguenze dannose;
- il lavoratore deve, inoltre, segnalare la violazione o inadempimento del datore, ma non è tenuto a dare anche la prova di quest’ultimo;
- spetta al datore di lavoro dimostrare di aver a suo tempo adottato tutte le misure di sicurezza possibili per evitare possibili incidenti e infortuni (formazione, informazione, fornitura dei Dpi, vigilanza sul loro uso, organizzazione e prevenzione dei rischi).
Non solo. La Suprema Corte ha anche colto l’occasione per dare un’altra indicazione pratica, valevole in tanti possibili vicende analoghe.
Come già affermato in passato (ad es. Cass. 25597/2021), non basta dimostrare la consegna dei dispositivi di protezione. L’azienda deve sempre accertarsi che siano effettivamente utilizzati, deve controllare che l’uso avvenga e sia corretto.
Ma attenzione, comunque, a tutti gli aspetti dell’evento dannoso e del comportamento del dipendente. L’eventuale imprudenza, negligenza o violazione di norme antinfortunistiche o direttive non libera automaticamente l’azienda da responsabilità e risarcimento.
Questo a meno che non si tratti di un comportamento sproporzionato, imprevedibile e del tutto fuori luogo, rispetto alle mansioni assegnate (il cosiddetto rischio elettivo che ricade sul dipendente e che determina la sua esclusiva responsabilità in merito all’infortunio). Perciò anche questo fattore aspetto andrà opportunamente vagliato e verificato in aula.
In quel caso, infatti, l’azienda non è responsabile per l’infortunio del dipendente.
Che cosa cambia per i lavoratori in Italia
La pronuncia n. 26021 della Cassazione si inserisce nel solco di una giurisprudenza consolidata, che rafforza la tutela dei lavoratori, specialmente in settori alto rischio come edilizia, chimica, agricoltura, sanità o logistica.
In termini pratici, ai datori non basta consegnare caschi, tute, occhiali o guanti. Devono formare i dipendenti, vigilare sull’uso dei dispositivi e aggiornare costantemente il Documento di Valutazione dei Rischi.
Si tratta di compiti necessari perché, in caso di infortunio, la mancata prova di queste cautele può comportare responsabilità civile e risarcitoria, ma anche la responsabilità penale.
Dal lato dei dipendenti, la Corte suggerisce di:
- denunciare subito eventuali infortuni;
- munirsi di quanti più elementi possibile per dimostrare il collegamento con l’attività lavorativa;
- ricordare che la legge non obbliga a provare la colpa del datore, ma solo a dimostrare l’accaduto e le conseguenze per la propria salute.
La decisione in oggetto conferma un principio chiave per tutti i rapporti di lavoro: la sicurezza non è un adempimento burocratico, ma un dovere sostanziale che grava costantemente sull’azienda.
È per questo principio che la mera consegna dei dispositivi e la relativa formazione in merito all’uso non sono sufficienti. Per prevenire incidenti serve un’effettiva organizzazione e una vigilanza giorno dopo giorno.
Concludendo, in un Paese che registra un evidente aumento di morti sul lavoro e malattie professionali, il monito della Cassazione appare chiaro. E stabilisce che la responsabilità datoriale non si esaurisce con la firma sui documenti o con la fornitura dei Dpi come previsto dal contratto collettivo, ma richiede un impegno costante e concreto a tutela della salute dei lavoratori.