Stalking su Facebook, vale anche se la vittima non è iscritta: la sentenza

Il reato di stalking ricorre anche quando l'autore pubblica pochi post lesivi sul proprio profilo Facebook. L'interessante sentenza della Cassazione fa luce su un caso non infrequente

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 22 Settembre 2024 19:00

Nei tempi odierni il mondo digitale permette a tutti gli utenti del web di connettersi ed esprimere le proprie opinioni e commenti sui più diversi fatti ed eventi. Talvolta le discussioni che si creano nei gruppi, nelle chat pubbliche e nelle pagine dei più noti social network divengono molto accese, e non mancano situazioni in cui gli animi surriscaldati si lasciano andare a espressioni assai colorite o addirittura offensive.

Una recente decisione della Cassazione – la sentenza n. 33986 depositata il 5 settembre scorso – ha affrontato proprio il tema della pubblicazione di post su Facebook e ha chiarito quando può ricorrere il reato di stalking o atti persecutori, così come configurato all’art. 612 bis del codice penale (decreto-legge 11/2009, convertito dalla legge 38/2009).

È convinzione comune quella per cui – sui social come Facebook o Instagram – sia possibile scrivere, in piena libertà, sul proprio spazio o bacheca virtuale, ma non è esattamente così. Per la Corte, infatti, il proprietario di un profilo o di una pagina potrebbe essere chiamato a rispondere di stalking, anche quando il post incriminato non si trova sulla bacheca della persona offesa ma sulla propria.

Di seguito parleremo di questi argomenti di interesse generale, anche e soprattutto per spiegare qual è l’orientamento della Corte a riguardo e chiarire i possibili rischi connessi ad un uso troppo.. disinvolto dei social network e dei servizi di messaggistica ad essi collegati.

Il caso concreto e il percorso giudiziario in sintesi

Come si può leggere nel testo della sentenza della Cassazione, che richiama quanto successo in precedenza, la corte di appello di Torino confermava la sentenza con cui il Tribunale di Vercelli aveva condannato un uomo alla pena prevista dalla legge – oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile – per il reato di stalking (art. 612 bis c.p.).

Nei fatti di causa – così come riportato nel capo d’imputazione – veniva contestata la condotta dell’imputato che, tramite l’inoltro di due post sulla propria bacheca Facebook, con atti persecutori prendeva di mira un’altra persona. In particolare, i post erano stati pubblicati su Facebook ma non sul profilo della vittima, bensì su quello dell’autore del reato.

Lamentando violazione di legge e difetto di motivazione, l’imputato ha impugnato la sentenza della corte territoriale, chiedendone l’annullamento tramite ricorso per Cassazione.

Nella sentenza n. 33986 la Cassazione non ha però aderito ai motivi del ricorso dell’uomo, anzi allineandosi a quanto già stabilito in appello. Proprio la corte territoriale ha offerto infatti una motivazione al suo provvedimento, ritenuta dalla Suprema Corte non illogica, carente o contraddittoria, segnalando peraltro un’accesa conflittualità, protrattasi nel tempo, tra le parti della causa.

Il forte astio emergeva anche dai segnalati fatti di violenza e di ingiuria, compiuti dall’imputato in danno della moglie – figlia della persona bersaglio degli attacchi su Facebook. Tali azioni, commesse contro la coniuge, avevano peraltro già condotto alla condanna dell’imputato per il reato di maltrattamenti contro familiari.

Atti persecutori tramite due post su Facebook

Nella citata sentenza la Cassazione ha così sottolineato che, alla luce di un contesto di aperta e grave conflittualità:

l’inoltro dei “post” indicati nel capo d’imputazione, nella valutazione dotata di intrinseca coerenza logica, operata dalla corte territoriale, ha acquisito un’oggettiva capacità persecutoria, incidendo sulle abitudini di vita della persona offesa e sulla sua serenità, come evidenziato dal giudice di secondo grado, anche alla luce del contributo fornito dalle prove dichiarative assunte.

Non solo. La Suprema Corte riconosce la bontà della decisione di secondo grado, confermando quindi la condanna per stalking dell’utente del web imputato, specificando che la corte territoriale ha correttamente applicato i principi affermati dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui:

  • ricorre il reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) anche in caso di due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo,
  • idonee a rappresentare la ripetizione della condotta richiesta dalla legge.

Come già acclarato dai giudici, non è invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. In sostanza, bastano due soli post molesti, diffamatori o a contenuto minaccioso, pubblicati su Facebook, a rendere responsabile l’autore del reato di stalking.

Responsabilità penale anche se la persona offesa non accede al social network

La Cassazione ha chiarito inoltre che la condanna scatterà indipendentemente dal fatto che la persona offesa possa accedere al social network oppure no, ossia all’ambiente digitale in cui sono i post incriminati. Affinché si possa parlare di reato di atti persecutori o stalking, tecnicamente è infatti necessario semplicemente che ricorra l’elemento soggettivo del dolo generico:

il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire.

Pertanto l’incriminazione per stalking scatterà in ambo i casi seguenti:

  • i messaggi persecutori sono inviati o postati sul profilo social della persona offesa;
  • i messaggi persecutori, pur avendo come destinataria una determinata persona, sono pubblicati sul solo profilo dell’autore.

In questo secondo caso – sottolinea la Corte – è vero che sarà necessario verificarne la conoscibilità, ma sarà certamente scontata quando il profilo sia ampiamente accessibile, come nel caso di Facebook.

Nel testo della sentenza infatti il giudice chiarisce che l’autore del reato di atti persecutori ha usato il proprio profilo per pubblicare contenuti espressamente rivolti alla persona offesa e alla figlia, ma con modalità tali da determinare la conoscibilità da parte loro o comunque anche di altri soggetti terzi, a loro legati.

I due post incriminati erano infatti stati postati su un profilo dell’autore “aperto” e accessibile da parte di persone vicine alla vittima. Non a caso, nella sentenza si trova scritto che la persona offesa dagli attacchi social:

non avendo un profilo Facebook è stato avvisata dalla propria sorella della pubblicazione di quei contenuti.

La sorella infatti era in grado di accedere a Facebook, leggere i contenuti e riferirli alla persona offesa, informandola della condotta persecutoria. Quando lo strumento è altamente diffuso tra gli utenti del web, non rileva perciò che la persona perseguitata sia effettivamente iscritta e/o partecipe del network, su cui avviene la pubblicazione dei messaggi lesivi.

Cosa si rischia con il reato di stalking

A questo punto ricordiamo quali sono le sanzioni previste per un reato introdotto dal legislatore, anche e soprattutto per fornire una risposta ai crescenti casi di violenze, minacce e persecuzioni ai danni della popolazione femminile.

All’art. 612 bis del codice penale si può leggere che:

è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Inoltre:

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

Il reato in oggetto è punito a querela della persona offesa, ma ci sono casi specifici in cui quest’ultima non serve e si si procede d’ufficio (ad es. se il fatto è commesso ai danni di un minore). Di stalking oggi si parla in numerosi contesti, ed anche in ambito condominiale o occupazionale.

Conclusioni

Ricapitolando, è la semplice conoscenza potenziale del contenuto di quanto pubblicato in rete, che espone l’autore dei messaggi e testi diffamatori, molesti, minacciosi e persecutori alla condanna prevista dall’art. 612 bis del codice penale.

Per cui nulla toglie all’imputazione per stalking o atti persecutori che la condotta si integri in due soli post, redatti in un breve arco di tempo (reiterazione), se questi hanno raggiunto lo scopo di produrre nella vittima quello stato di ansia o turbamento, che è elemento costitutivo del reato e di cui si trova traccia nella definizione del codice.

Pertanto secondo la sentenza della Cassazione n. 33986 del 6 settembre 2024, è possibile essere condannati per stalking anche per due soli messaggi minacciosi, se questi sono in grado di alterare in modo sostanziale la serenità e le abitudini di vita della vittima o da innescare ansia, stress o timore di nuove aggressioni.

Ed anzi non è necessario che gli atti persecutori si concretizzino in una prolungata sequenza temporale, in quanto – come chiarito dalla Cassazione – anche condotte ripetute in un lasso di tempo breve possono integrare il reato di stalking o atti persecutori.