Secondo recenti aggiornamenti Istat, il lavoro in Italia è in crescita. Lo scorso aprile – rispetto al mese anteriore – sono infatti aumentati gli occupati, diminuiti i disoccupati e rimasti stabili gli inattivi, ossia coloro che non fanno parte delle forze lavoro – non essendo classificati come occupati o in cerca di lavoro.
Un +0,4%, pari a +84mila unità, dei posti di lavoro per per uomini e donne, per dipendenti e autonomi e per tutte le classi d’età – tranne i 25-34enni che evidenziano una contrazione. Mentre il tasso di occupazione sale al 62,3% (con un +0,1% punti). Ed anche a maggio segnali positivi, dato che – come indica Istat – il numero di occupati nel mese ha superato quello di maggio 2023 del 2,0% (+462mila unità). L’aumento coinvolge uomini, donne e tutte le classi d’età, mentre il tasso di occupazione in un anno cresce di 0,9 punti percentuali.
Innanzi a questi dati, che si collocano sullo stesso trend positivo dello scorso anno – nel 2023 proseguiva infatti la crescita degli occupati con un aumento di 481mila unità (+2,1% in un anno) – si potrebbe pensare che il mercato del lavoro stia finalmente uscendo dal tunnel della precarietà. Tuttavia vi sono alcune note stonate.
Il Report del Forum Disuguaglianze e Diversità intitolato “Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro” contiene infatti una fotografia a 360 gradi del fenomeno del part-time involontario, e fa capire come – molto spesso – il ricorso a questa tipologia contrattuale sia una sorta di via di fuga dalla disoccupazione, in assenza di migliori alternative. Vediamo più da vicino questo studio.
Indice
Il part time come scelta semi-obbligata per non restare disoccupati
Pensiamo a chi viene licenziato perché la sua azienda non è più in grado di garantirgli uno stipendio oppure al giovane che, con spirito di iniziativa, si propone ai potenziali datori di lavoro con CV e lettera di presentazione, trovando però difficoltà ad ottenere un’occupazione stabile, ben retribuita e quindi dignitosa.
Non di rado, il part-time appare come una sorta di ‘salvagente’, un appiglio a cui far riferimento in un periodo in cui, territorialmente e sul fronte delle singole offerte di lavoro, non si riesce a trovare di meglio.
Nato come strumento mirato alla conciliazione di vita e di lavoro, il part time oggigiorno – in una moltitudine di casi – fa rima con precarizzazione e talvolta anche con sfruttamento, specialmente quando viene imposto dall’azienda come aut-aut – non palesandosi come il risultato di una scelta libera del lavoratore o della lavoratrice.
Nel nostro paese il contratto a tempo parziale si è trasformato o si trasforma in una forma di marginalizzazione lavorativa. Da una recente analisi dell’Istat sul mercato del lavoro emerge nettamente che, rispetto ai dipendenti con contratti a tempo indeterminato e full-time, gli occupati a termine e a tempo parziale incassano mediamente un reddito equivalente molto più basso e devono altresì fronteggiare una marcata instabilità lavorativa.
Conseguentemente, la sola alternativa per contare su maggiori entrate è quella di avere un altro lavoro part time o una qualche rendita (ad es. da affitto) che, combinata allo stipendio, consenta di far quadrare il bilancio familiare mensile. Insomma, se è vero che l’occupazione è in crescita, come indica Istat, è però altrettanto vero che la ‘qualità’ di tale occupazione non è spesso adeguata a risolvere il problema della precarizzazione e dell’incapacità di progettare un futuro lavorativo e di vita.
Ecco perché si parla spesso di part time involontario, a riprova di una scelta semi-obbligata per evitare la sola alternativa della disoccupazione – e ciò specialmente in quei periodi non più coperti dalla Naspi. A ‘guadagnarci’ sono piuttosto le imprese, che possono così ridurre il costo del lavoro, versando meno soldi in busta paga e pagando meno contributi previdenziali.
Quando il part time è involontario? I 3 casi individuati dal Report
Il summenzionato report del Forum rimarca che oggi il part time riguarda in Italia più di 4 milioni di lavoratori e lavoratrici, ma non tutti lo scelgono perché ad es. hanno bisogno di tempo durante la giornata per accudire i figli o studiare.
In particolare, secondo gli autori dell’indagine l’orario di lavoro a tempo parziale può essere definito involontario quando:
- un lavoratore o una lavoratrice è assunto/a con orario ridotto, ma gli viene data una paga maggiore con ore di lavoro straordinarie o clausole elastiche;
- un lavoratore o una lavoratrice è assunto/a part-time, ma lavora più ore di quanto concordato (persone
il cui lavoro talvolta si può definire “grigio”, ossia le ore lavorate in più sono pagate fuori dalla busta paga o in
alcuni casi addirittura non sono retribuite); - un lavoratore o una lavoratrice è assunto/a part-time, con un contratto che dispone un monte ore di
lavoro da 12 o 20 ore. In questo caso la persona assunta vorrebbe lavorare di più, ma non c’è domanda di lavoro sufficiente e quindi deve adattarsi ad un contesto sfavorevole.
Oltre la metà dei 4 milioni e 203 mila lavoratori e lavoratrici part-time – per la precisione il 56,2% – non ha voluto questa forma contrattuale – spiega il Report del Forum – ma l’ha accettata o subìta per necessità o per mancanza di altre possibilità, rientrando perciò nel part-time involontario.
Per completezza ricordiamo che, al di là della tipologia di contratto part time e della distribuzione delle ore lavorate, le ore totali di lavoro possono essere – tipicamente – uguali a 16, 18, 20, 24 o 30 ore alla settimana.
Nel Report si segnala altresì che:
Un adeguato disegno di politiche pubbliche può contribuire a far uscire dalla condizione di part-time involontario i lavoratori e le lavoratrici che rientrano nelle prime due categorie.
Il profilo tipico del lavoratore part time
Come accennato, il mercato del lavoro è complessivamente in crescita e ci sono alcuni settori in cui è più facile riuscire ad inserirsi stabilmente, uscendo dal tunnel della disoccupazione. In particolare i laureati possono mettere a frutto il periodo di studio universitario, grazie alle opportunità offerte in Italia – e non solo.
Tuttavia, dai dati del Report del Forum Disuguaglianze e Diversità è altresì emerso che l’utilizzo di contratti atipici, quali il tempo determinato e il part-time, è assai diffuso tra alcuni gruppi specifici di lavoratori. In parole semplici, non tutti coloro che sono in cerca di lavoro hanno le stesse chance di trovarne uno che li possa soddisfare – anche e e soprattutto sul profilo economico e sul piano della continuità nel tempo.
Il report è interessante anche perché traccia il profilo del classico lavoratore con part time involontario, ecco di seguito le caratteristiche tipiche:
- giovane;
- di sesso femminile;
- straniero;
- residente nel Sud Italia;
- con basso livello di istruzione.
La citata indagine rivela come siano proprio queste categorie di persone, sottoposte più frequentemente a contratti a termine e/o a tempo parziale, a incassare anche le retribuzioni mediamente più basse. E le probabilità che ciò avvenga sono tanto maggiori, quante più il singolo profilo si avvicina all’elenco di cui sopra (ad es. ragazza di 23 anni senza diploma di scuola superiore e residente in Basilicata).
Nel Report si rimarca altresì che il part-time involontario, inoltre, è più diffuso tra le giovani donne che lavorano a tempo parziale per impossibilità di trovare il tempo pieno: si parla del 21% delle occupate nell’età compresa nella fascia 15-34 anni (65% delle lavoratrici part-time), rispetto al 14% di quelle di 55 anni e oltre (49% delle lavoratrici a tempo parziale).
In sostanza, si tratta di un circolo vizioso da cui è difficile uscire e nel quale forme di lavoro non standard si combinano a situazioni di povertà lavorativa, colpendo porzioni specifiche della popolazione.
Quali settori sono più a rischio part time
Come suggerito dai dati periodicamente raccolti e pubblicati da Istat, il part-time involontario incide di più sui lavoratori e sulle lavoratrici con un contratto a tempo determinato, di per sé già più vulnerabili perché consapevoli di non avere un’occupazione stabile.
Ma nel suo Report recentemente presentato in Senato, il Forum Disuguaglianze e Diversità sottolinea altresì che il part time involontario è diffuso in alcuni specifici settori di impiego, ossia:
- imprese di pulizie;
- mense;
- grande e media distribuzione;
- servizi alla persona.
Non solo. Nell’analisi in oggetto si può leggere quanto segue:
Si tratta di settori femminilizzati dove lavorano maggiormente donne e donne migranti. Sono quei settori caratterizzati dagli appalti, quindi dalla pressione di riduzione dei costi, da alta flessibilità degli orari in relazione, soprattutto nella grande distribuzione, all’algoritmo che prevede i flussi di clientela, o dalla contemporaneità oraria della massima attività (pulizia a inizio o fine degli orari ordinari).
Ma sono anche settori caratterizzati da retribuzioni esigue, nei quali è applicato il contratto multiservizi che ha i minimi contrattuali più bassi di tutto il sistema contrattuale – si rimarca nel Report.
Possibili soluzioni
Quindi come evitare nuove distorsioni ed abusi legati al part time involontario? Il Forum ha offerto tre possibili soluzioni:
- occorre migliorare gli strumenti per la tutela contrattuale e disporre che i contributi previdenziali di questa categoria di lavoratori costino di più all’azienda. In sostanza le aziende dovrebbero essere sollecitate a valutare il ricorso al full time;
- prevedere disincentivi alle forme involontarie di part time e costruire, invece, una rete di incentivazione per la trasformazione da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno;
- proporre un aumento dei controlli al fine di aderire alla raccomandazione europea che prevede l’aumento degli ispettori del 20%, in modo da reprimere eventuali abusi.
Concludendo, il Report del Forum Disuguaglianze e Diversità è quindi utile non soltanto ad inquadrare l’attuale situazione, ma anche e soprattutto a fornire possibili soluzioni e buone pratiche per evitare che il part time involontario continui ad essere una scelta obbligata per evitare la disoccupazione, facendo acuire così le disuguaglianze economiche e sociali e aumentare le situazioni di povertà lavorativa.