Buoni pasto pubblico impiego, la Cassazione apre a tutti ma a una condizione

La Suprema Corte spiega che, nel lavoro presso la PA, i buoni pasto spettano a tutti i dipendenti, turnisti e non, sempre che sia rispettato uno specifico requisito di legge

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Sostitutivi della mensa aziendale, agevolati fiscalmente e, soprattutto, utili a una corretta alimentazione durante la pausa pranzo, i buoni pasto sono disciplinati dalla legge e dettagliati dai contratti collettivi. Anche la giurisprudenza contribuisce a chiarire la loro funzione e, infatti, recentemente la Cassazione – con la sentenza n. 25525 – ha spiegato che l’utilizzo di questo buono, nel pubblico impiego, va inteso in senso ampio e – quindi – vale per tutti al momento della pausa, dopo sei ore di lavoro.

Vediamo più da vicino questa importante decisione che sottolinea un diritto dei lavoratori del pubblico impiego e non distingue tra turnisti e non.

Il caso concreto e la decisione dell’appello che allarga la portata del diritto ai buoni pasto

Alcuni infermieri professionali, chiamati a svolgere la loro prestazione con un orario continuato, avevano fatto ricorso contro l’azienda sanitaria provinciale (Asp) datrice di lavoro, sostenendo di aver diritto al buono pasto (o al servizio mensa) in virtù della specifica previsione di legge. Il regolamento della stessa Asp, invece, prevedeva il diritto in questione per il solo personale non turnista con rientro pomeridiano.

Dopo un primo grado sfavorevole agli infermieri turnisti, in appello il giudice decise per l’estensione a tutti del diritto al servizio mensa o al buono pasto sostitutivo, indipendentemente dall’organizzazione dell’orario. La sola condizione per accedere al beneficio del ticket era lo svolgere mansioni per almeno sei ore al giorno.

La decisione di secondo grado fu però impugnata dall’ente sanitario, la cui evidente volontà era quella di limitare l’erogazione dei buoni pasto, il cui costo – come è noto – ricade sul datore.

In particolare, l’Asp voleva che fosse applicata la distinzione tra lavoratori non turnisti e con orario spezzato (come ad es. impiegati o gli assistenti sociali) e turnisti (come ad es. gli infermieri o gli oss), perché solo i primi – con un orario tipicamente giornaliero e fisso – hanno per contratto la possibilità di sospendere lo svolgimento delle mansioni e andare a pranzare.

Il personale che si occupa dell’assistenza medica diretta, invece, tipicamente garantisce la continuità dei servizi sanitari e lavora – quindi – senza interruzioni tali da consentire una vera e propria pausa pranzo, con correlato diritto al beneficio per il cibo. La tesi sostenuta dall’Asl non ha però portato a una sentenza favorevole in Cassazione.

Dopo sei ore di lavoro al dipendente spetta il ticket, la Cassazione chiarisce

Riconoscendo la correttezza del ragionamento logico-giuridico del magistrato di secondo grado, la Corte ha dato nuovamente torto all’ente sanitario, inquadrando alcuni punti chiave nella sua decisione n. 25525.

Il buono pasto spetta a tutti i dipendenti pubblici, senza distinzione tra turnisti e non e – quindi – senza differenze legate all’articolazione dell’orario di lavoro, a patto che per contratto:

  • la giornata lavorativa sia maggiore di sei ore;
  • sia conseguentemente prevista una pausa pranzo.

Per la Corte, il diritto al buono pasto (utile anche per acquistare prodotti alimentari) non dipende dal tipo di turno o dall’articolazione oraria del lavoro, ma va oltre e viene incontro alla necessità della pausa pranzo per recuperare le energie psicofisiche, nell’ambito della giornata lavorativa. Lo dice chiaramente la legge e in particolare l’art. 8 comma primo del d. lgs. 66/2003:

Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.

Non a caso, sulla stessa linea è anche l’art. 29 del contratto integrativo di settore, a cui il giudice territoriale ha fatto correttamente riferimento per stabilire il diritto al buono pasto senza limitazioni.

Ricapitolando, la Cassazione ha così respinto il ricorso dell’azienda sanitaria provinciale e rimarcato che per il diritto al buono pasto non è necessario avere l’orario spezzato tipico dei ruoli amministrativi o d’ufficio. Ciò che conta è, invece, l’effettiva possibilità di fare una pausa e questo, ovviamente, vale per tutti i dipendenti dell’Asl e – a maggior ragione – vale proprio per quei dipendenti turnisti, che fanno orari talvolta molto logoranti per responsabilità e ritmi di lavoro.

Che cosa cambia

La materia dei buoni pasto è ricca di interventi giurisprudenziali, come ad es. in riferimento alle ferie. Ma anche di constatazioni legate all’utilizzo pratico di tali benefit. Con questa recente decisione è stato ribadito che qualsiasi dipendente che, nel settore sanitario, lavori più di sei ore al giorno ha diritto a consumare un pasto, al di là della sua condizione di turnista o meno.

Perciò, qualora non sia possibile usufruire della mensa per la continuità assistenziale in campo medico, al lavoratore- e come nel caso qui visto, all’infermiere professionale – deve essere assegnato un buono pasto sostitutivo.

La Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire un concetto già chiarito in passato (come ad es. nell’ordinanza 21440 dello scorso anno), ossia che il buono pasto è un’agevolazione o diritto assistenziale e, perciò, non va letto come parte integrante dello stipendio. In altre parole, ha una valenza legata alla sfera della salute e del benessere del dipendente, e non alla “materiale” componente economica, organizzativa od oraria del contratto.

Ecco perché il buono pasto non spetta in base all’orario che un dipendente pubblico ha, ma – semmai – per la durata della sua prestazione lavorativa giornaliera e, ovviamente, per la necessità di fare una pausa e recuperare energie per il prosieguo della giornata in ufficio.

La decisione in oggetto è anche un precedente che potrà evitare numerose dispute giudiziarie tra dipendenti e PA. Non fa differenza se si è un operatore sanitario turnista, un impiegato in Comune che rientra il pomeriggio o un vigile urbano in servizio per strada: lavorando oltre le sei ore, si matura il diritto al buono pasto o alla mensa.