Quando c’è una guerra cosa significa parlare del suo “costo”? Perché, sì, ogni conflitto costa e non costa solamente i milioni di dollari di armi, droni, portaerei, sofisticazioni tecnologiche, unità speciali eccetera eccetera che uno Stato decide di spendere. Costa soprattutto vite umane, costa vite disintegrate, alienate, stravolte.
Costa palazzi, edifici, case, città distrutte, danneggiate, rase al suolo. Costa obiettività, se è vero, come scrisse il tragediografo greco Eschilo, che “in guerra la prima vittima è la verità”. Costa, non da ultimo, in termini ambientali. Il 6 novembre è la Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in guerra e nei conflitti armati, istituita dalle Nazioni Unite. Perché se ne parla poco ma acque inquinate, coltivazioni agricole distrutte, terreni avvelenati, foreste bruciate e animali uccisi sono conseguenze altrettanto gravi di una guerra. Sono, potremmo dire, conseguenze future, a lungo termine.
La giornata del 6 novembre
Quella del 6 novembre è una giornata istituita dalle Nazioni Unite per sensibilizzare proprio sugli effetti dannosi causati dai conflitti sull’ambiente. Anche perché risorse idriche inquinate, raccolti e foreste devastati e animali uccisi molto spesso rientrano nelle strategie militari.
Inoltre il controllo delle risorse naturali è tra i fattori che scatenano i conflitti: secondo un report dell’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, negli ultimi 60 anni almeno il 40% di tutti i conflitti è stato legato allo sfruttamento di risorse naturali come petrolio, oro e diamanti, ma anche acqua e terre fertili.
Le iniziative delle Nazioni Unite
Anche l’ambiente, dunque, è una delle vittime della guerra. Nell’immediato (mentre le bombe esplodono, le armi sparano e le persone muoiono) e nel lungo periodo (quando restano cenere, macerie, devastazione, inquinamento). Per questo il 27 maggio 2016 le Nazioni Unite hanno adottato la cosiddetta Risoluzione UNEP/EA.2/Res.15, che ha riconosciuto il ruolo degli ecosistemi integri e delle risorse naturali gestite in modo sostenibile nel ridurre il rischio di conflitti armati.
La risoluzione ha inoltre ribadito il suo impegno per la piena attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile elencati nella risoluzione 70/1 dell’Assemblea Generale, chiamata “Trasformare il nostro mondo: l’agenda del 2030 per lo sviluppo sostenibile”.
Le emissioni di CO2 dell’esercito americano
Ma come si fa ad avere una stima di quelli che sono i danni ambientali provocati dalle guerre? Tanto per iniziare possiamo certamente affermare che navi, aerei e tutta l’attrezzatura militare consumano grosse quantità di carburante: la prima ovvia conseguenza è dunque una massiccia e consistente emissione di C02 nell’atmosfera.
Le attività militari hanno effetti pesanti anche solo in tempo di pace: un rapporto di Emergency ha rilevato che tra il 2011 e il 2017 il Dipartimento di Stato americano ha emesso 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 (pari alle emissioni annue di 257 milioni di automezzi). Le emissioni di CO2 da parte dei più grandi eserciti del mondo sono maggiori di quelli di molti Paesi messi assieme. Uno studio del 2019 della Durham University e della Lancaster University indica proprio l’esercito statunitense come il più inquinante della storia in quanto più grande consumatore istituzionale al mondo di petrolio e, di conseguenza, emettitore di gas serra.
Mine antiuomo e residui bellici
In tempo di guerra, naturalmente, si aggiungono moltissimi altri elementi distruttivi e dannosi, partendo dal fatto che le esplosioni producono ingenti quantitativi di polveri e gas che inquinano l’aria e vengono poi trasportate dal vento. Gli effetti inquinanti hanno conseguenze per il suolo, l’aria, l’acqua, la fauna e la vegetazione.
Se pensiamo solo all’Europa, dopo più di mezzo secolo succede ancora oggi di ritrovare residui bellici delle due guerre mondiali: mine antiuomo, munizioni a grappolo, altri residui bellici esplosivi, oltre ad essere un rischio per la sicurezza delle persone sono di certo di certo un problema per l’ambiente per la quantità di metalli e altri composti tossici presenti nel suolo. E questo discorso vale ovviamente per qualunque territorio, dal Medi Oriente all’Africa, sia stato teatro di un conflitto, più o meno recente.
Gli incendi dei pozzi di petrolio in Kuwait
Per fare un esempio concreto e significativo, occorre tornare alla prima guerra del Golfo (1990-1991), quando venne messo in atto una sorta di disastro ambientale voluto, un sabotaggio con conseguenze enormi. L’esercito iracheno di Saddam Hussein, costretto alla ritirata dalla campagna aerea americana, ricevette l’ordine, durante la fuga, di incendiare in Kuwait centinaia (circa 600 o forse 700) pozzi di petrolio: milioni di litri di petrolio di riversarono nel Golfo Persico, lunghissimi tratti di costa furono ricopersi dal greggio e nell’entroterra, sulla superficie desertica, si formarono decine e decine di autentici laghi di petrolio, contaminando il suolo.
Circa mezzo miliardo di tonnellate di anidride carbonica furono rilasciate nell’atmosfera e ci volle un anno solo per arrivare al completo spegnimento degli incendi. La catastrofe naturale fu descritta dal fotografo brasiliano Sebastiao Salgado che si trovava sul posto e che scrisse: “Era uno scenario impressionante. Il cielo era nero, faceva buio anche di giorno. A terra, catrame ovunque. Era difficile capire dov’erano le strade, in quale direzione procedere. Erano scomparse le poche tracce d’umanità nel paesaggio”.
Effetti della guerra in Iraq
Rimanendo in Iraq, durante la guerra tra il 2003 e il 2011, la distruzione nei bombardamenti dei sistemi idrici e igienico-sanitari provocò l’immissione nei fiumi di milioni di tonnellate di liquami grezzi, oltre alla dispersione dei rifiuti industriali conseguente alla distruzione delle fabbriche. Anni di guerra e occupazione (seguito ad altri anni di conflitti interni e presenza dell’Isis) hanno praticamente azzerato l’agricoltura e l’economia di un Paese ridotto alla fame prima dalla dittatura poi dalle sanzioni, un Paese martoriato sia dall’uomo sia dal clima: nel 2019, un rapporto delle Nazioni Unite ha classificato l’Iraq come il quinto Paese più vulnerabile al mondo in termini di disponibilità di acqua e cibo ed esposizione a temperature estreme.
Si stima che entro il 2035 l’Iraq avrà la capacità di soddisfare appena il 15% del suo fabbisogno idrico: il 90% dei fiumi è inquinato e sette milioni di persone soffrono di un “accesso ridotto” all’acqua. Secondo l’Unicef nel 2021 tre bambini su cinque in Iraq non avevano accesso a servizi idrici gestiti in modo sicuro. In alcuni villaggi del Paese, secondo il British Medical Journal, gli abitanti dipendono dalle acque sotterranee dei pozzi, acque che sono però contaminate da batteri e non adatte al consumo.
Ucraina, aree naturali e biodiversità a rischio
Una guerra dei nostri giorni, una guerra in Europa, la guerra nata dall’invasione russa dell’Ucraina che dura dal febbraio 2022, ha già causato, tra le altre cose, danni ambientali per 52 miliardi di euro, secondo un calcolo del Parlamento Ue. L’Ucraina, infatti, ospita più di 6mila aree naturali protette e sul suo territorio cresce circa il 35% della biodiversità continentale Europea.
Ovviamente è difficile avere stime precise: ma per farsi un’idea possono sicuramente servire i dati, risalenti a luglio 2024, proprio dell’Ue, secondo cui nel territorio di Kiev ci sono state 2.317 segnalazioni verificate di azioni militari con un effetto ambientale diretto sulla natura.
I danni subiti dall’Ucraina in miliardi di euro
Le stime basate su ispezioni ambientali mostrano che l’invasione di Mosca fin qui “ha causato danni ambientali per circa 52,4 miliardi di euro” tra impatti negativi sull’aria (27 miliardi), per l’acqua (1,5 miliardi), al suolo (0,3 miliardi), e inquinamento da rifiuti (23,6 miliardi). Incendi, esplosioni, costruzione di fortificazioni e avvelenamento del suolo e dell’acqua hanno avuto, per citare il report del Parlamento europeo, “un impatto sulla fauna selvatica e distruggono gli habitat naturali, compresi quelli protetti nelle riserve della biosfera e nei parchi nazionali”.
Il suolo inquinato diventa un problema per l’agricoltura, fondamentale per l’economia ucraina e importante anche per l’export mondiale. Molti terreni sono inutilizzabili a causa della presenza di ordigni inesplosi o per la presenza di sostanze tossiche come il fosforo bianco. Il costo di tutto questo in termini di danni è stimato attualmente da alcuni ricercatori pari a circa 46 miliardi di euro.
Le emissioni prodotte dall’invasione
All’inizio del conflitto, la Russia aveva bombardato depositi di combustibili fossili e distrutto i gasdotti Nord Stream (con un’eruzione sottomarina di metano che ha avuto un impatto sul clima equivalente a 14 MtCO2e).
Almeno 15 impianti di stoccaggio ucraini di petrolio hanno subito grandi incendi, contribuendo a circa 1,1 MtCO2e di emissioni, mentre le reti del gas hanno subito almeno oltre 200 attacchi. In generale, secondo un recente rapporto pubblicato dal ministero dell’ecologia ucraino, le emissioni prodotte in due anni di invasione ammontano a circa 175 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Rotte deviate: gli aerei consumano più carburante
Poi c’è la questione dei voli aerei: i cieli ucraini e in parte russi restano o “vuoti” per circa 18 milioni di km quadrati a causa del divieto di volo negli spazi aerei nazionali o per semplice precauzione. La conseguenze è che le rotte commerciali aggiungono ore di volo ai viaggi tra Europa e Asia, e questo provoca un notevole aumento di carburante per le deviazioni di percorso.
Gaza, il costo umano e politico
Un’altra guerra in corso è quella in Medioriente. Le terrificanti immagini che arrivano ogni giorno da Gaza, dove il popolo palestinese è stato privato di tutto e ridotto alla fame, rimandano a un costo umano intollerabile e inimmaginabile, ma anche a un costo politico che negli anni a venire avrà conseguenze sullo scacchiere Mediorientale e i suoi confini, con instabilità e rivalse crescenti.
Il diritto di vivere in un ambiente sano
La caccia ai terroristi di Hamas è diventata sterminio di una terra e di un popolo. Farah Al Hattab (una ricercatrice legale di Greenpeace Medio Oriente e Nord Africa con sede in Libano) ha scritto, nel suo blog sul sito di Greenpeace, di un “genocidio in atto che ha conseguenze disastrose anche per gli ecosistemi e vìola il diritto di molte persone di godere e vivere in un ambiente sano”.
Il costo climatico dei primi due mesi di guerra
Le emissioni di CO2 causate dalla guerra sono enormi, con una una stima di oltre 500mila tonnellate di anidride carbonica solo nei primi 120 giorni di guerra, il 90% delle quali attribuite al bombardamento aereo e all’invasione terrestre di Gaza da parte di Israele.
Uno studio realizzato da un gruppo della Queen Mary University of London e pubblicato dal Guardian, sostiene che solamente i primi due mesi di guerra a Gaza siano stati equivalenti all’impronta carbonica annuale di oltre 20 fra le nazioni più vulnerabili. In sostanza il costo climatico dei primi due mesi di guerra israeliana sarebbe equivalente ad aver bruciato almeno 150mila tonnellate di carbone. E la guerra va avanti da oltre un anno.
“Gaza inabitabile per le prossime generazioni”
L’utilizzo massiccio di esplosivi rende l’aria contaminata da sostanze chimiche provenienti da armi come il fosforo bianco. La sola esposizione alle munizioni al fosforo bianco porta a una riduzione della produttività dei terreni agricoli. Poi c’è la questione dell’acqua, che era un problema anche prima dell’inizio del genocidio: il 90% delle acque sotterranee della Striscia non sono potabili e in media gli abitanti avevano accesso a circa 2-8 litri di acqua, a persona, al giorno. Situazione ovviamente degenerata con gli attacchi israeliani.
Secondo le Nazioni Unite, il governo di Netanyahu avrebbe distrutti il 70% della flotta peschereccia di Gaza. Sono solo esempi e dati delle gravissime conseguenze di un conflitto: se le persone non muoiono sotto le bombe, muoiono per le malattie, per l’assenza di cibo e medicine, per l’impossibilità di coltivare la terra o pescare il pesce. E chissà per quanti anni. Non a caso Farah Al Hattab ha parlato di una Gaza “resa inabitabile per le prossime generazioni”.
Un impatto ambientale senza precedenti
L’impatto ambientale della guerra a Gaza non ha precedenti: la comunità è esposta, oltre che alle bombe e alla fame, all’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria con il rischio concreto di danni irreversibili agli ecosistemi naturali. La sola ricostruzione di Gaza, praticamente rasa al suolo, genererà quasi 60 milioni di tonnellate di CO2. E si prevede che le emissioni collegate alla ricostruzione saranno superiori alle emissioni annuali di oltre 135 Paesi, equiparandole a quelle di Svezia e Portogallo.
Le emissioni militari sono ai massimi storici
Per citare Gino Strada “un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile”. Perché le guerre hanno innanzitutto un costo umano immediato che prende la forma dei morti e dei feriti nei combattimenti o negli attacchi.
A questi vanno aggiunti i morti o i feriti che per anni saranno la conseguenza di territori devastati e inquinati. Le emissioni militari sono purtroppo ai massimi storici: nel 2022 le emissioni globali di CO2 erano 182 volte superiori a quelle del 1850. Quindi no, l’uomo non impara dalla storia, non impara dai suoi orrori. La giornata del 6 novembre ci ricorda che i costi delle guerre sono assai superiori, a quelli già inaccettabili, di cui leggiamo ogni giorno sui giornali.