Greenwashing in Italia, come riconoscere i falsi claim sulla sostenibilità

Strategie di Green Marketing ed ecologismo di facciata, a fronte di impegni reali. Come accorgersi che un'azienda sta usando belle parole, ma pochissimi fatti

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Alice Pomiato

Content creator

Alice Pomiato è una Content Creator che racconta com'è possibile avere uno stile di vita più sostenibile, etico e consapevole.

Quando sentiamo parlare di “Greenwashing” ci viene quasi da pensare che questo termine si riferisca ad un metodo di tintura “naturale”, o forse a detersivi ecologici. Beh, in un certo senso non siamo così distanti. Diciamo che l’obiettivo del Greenwashing è proprio quello di “lavare” via lo sporco, e tinteggiare di naturale, anzi naturalissimo verde, qualsiasi cosa tocchi.

Il termine “Greenwashing” è nato qualche anno fa, e sta ad indicare tutte quelle pratiche messe in atto dalle aziende, per meglio posizionarsi sul mercato, con falsi claim che raccontano il loro (non pervenuto) impegno ambientale. In Italiano, lo definiamo “ambientalismo di facciata”.

Sono strategie di comunicazione adottate da imprese, organizzazioni o istituzioni politiche che comunicano un impegno e un attaccamento alle politiche ambientali che in realtà non esiste, con lo scopo di ottenere attenzione e gradimento e aumentare il loro valore sul mercato.

Ogni prodotto o servizio in commercio ha un impatto ambientale, alcuni hanno un impatto ambientale inferiore o maggiore ad altri. Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad una sempre maggiore consapevolezza dei cittadini in materia di sostenibilità.

Chi acquista beni di prima necessità o meno, se ne ha l’interesse e le possibilità, prova a cambiare le proprie abitudini e scelte d’acquisto, preoccupandosi di sapere se e come, le aziende che sceglie, si preoccupano della loro impronta ambientale. Chi acquista, lo fa seguendo i propri valori e tra questi c’è quello della sostenibilità, cercherà il prodotto più sostenibile a disposizione.

I numeri del Greenwashing in Italia

I dati statistici europei ci raccontano che ben il 60% dei consumatori è disposto a pagare di più per avere un prodotto sostenibile se si tratta di elettricità, beni alimentari, cellulari, computer. La percentuale si attesta attorno al 50% per vestiti, beni di lusso e conti bancari.

Secondo una ricerca condotta da ConsumerLab, il 20% delle pubblicità trasmesse sui mezzi radiofonici e televisivi punta sui green claim, quando in realtà, sono poche le aziende veramente impegnate. Il panorama aziendale italiano ci racconta che almeno il 64% delle imprese italiane non presenta nemmeno un bilancio di sostenibilità.

In questo momento storico delicatissimo, alle aziende viene richiesto di rivedere completamente i loro business model e guidare ad uno sviluppo di prodotto sempre più sostenibile. Questi, però, sono processi che possono essere anche rivoluzionari e molte aziende non sono disposte a investire tempo e risorse per trasformare il loro modello di produzione tradizionale in un nuovo modello sostenibile.

Come funziona

Come fare dunque per essere appetibili in un mercato che richiede sempre più sostenibilità? Praticando l’ecologismo di facciata, dipingendo tutto di verde. Il Greenwashing nasce così, perché è molto più semplice ideare una strategia di green marketing anziché rendere la propria offerta, realmente più responsabile e sostenibile.

Come se non fosse già abbastanza, il Greenwashing è sempre più subdolo perché assume diverse forme, difficili da individuare soprattutto per chi non mastica questi argomenti. Il più delle volte, non implica affermazioni dimostrabilmente false, ma sa essere fuorviante senza palesemente mentire. Invece di dire bugie, i professionisti del marketing utilizzano una varietà di strategie progettate per creare l’impressione che i loro prodotti siano più sostenibili di quanto non siano in realtà.

I due modi più comuni in cui di fare greenwashing, implicano compromessi nascosti e affermazioni infondate, difficili da condannare. Quando le aziende vengono accusate di pratiche scorrette, si difendono semplicemente dicendo: “Non diciamo che l’abbiamo fatto”.

Il Greenwashing è uguale al Pinkwashing e al Rainbowashing? Queste diverse forme di “washing” hanno in comune il tentativo di usare l’impegno sociale per ottenere visibilità e riconoscimento, piuttosto che per un sincero interesse per i problemi ambientali o sociali in questione.

Ad esempio, le aziende accusate di pinkwashing usano il sostegno alla causa contro la violenza domestica sulle donne, per dare al pubblico l’idea di un’azienda responsabile, e distrarlo da altre forme di disuguaglianza o abuso in cui sono coinvolte (come le violazioni dei diritti delle lavoratrici o dei diritti umani in generale). Emblematici sono i casi delle aziende fashion che portano in palmo di mano i loro testimonial, e poi sfruttano e sottopagano i lavoratori nelle catene produttive.

Come riconoscere il Greenwashing?

I prodotti “greenwashed” sono commercializzati con dichiarazioni che sembrano utili e importanti, ma impossibili da definire. Alcuni termini, come “biologico”, sono accompagnati da una certificazione e hanno definizioni legali e requisiti specifici per l’uso.

Al contrario, termini come “naturale”, “non tossico”, “sostenibile” o negli internazionali “earth friendly”, “certified green”, “eco”, “verde” o “chemical free” sono così ampi e mal definiti che sono essenzialmente privi di significato. Regalano la percezione di un prodotto responsabile e rispettoso dell’ambiente, senza effettivamente fare promesse o dare garanzie.

Pensiamo per esempio ai tanti prodotti alimentari etichettati come “a basso contenuto di grassi”: l’affermazione potrebbe essere accurata, ma serve principalmente per nascondere le grandi quantità di zucchero aggiunto. Tali alimenti non sono più sani delle loro versioni normali e piene di grassi. Oppure, è molto comune trovare singole dichiarazioni ambientali come “contenuto riciclato”, che però ignorano altri aspetti, spesso più importanti, della sostenibilità.

Il Greenwashing conta sul fatto che il pubblico sia pigro e disinformato per indagare sulle vaghe dichiarazioni. L’unico modo per individuare le affermazioni non veritiere è la ricerca di dati che le confermino. Gli impegni su diversi fronti, anche quello ecologico, dovrebbero essere confermati da terze parti affidabili e neutrali e opportune certificazioni ufficiali, rilasciate da organizzazioni imparziali. Le certificazioni non sono mai un punto di “arrivo” per un’azienda, ma sicuramente un buon inizio.

La carta, ad esempio, porta spesso il simbolo del riciclaggio e le parole “contenuto riciclato”; questa può contenere il 10% di contenuto riciclato, mentre il resto è costituito da polpa vergine raccolta in modo non sostenibile. Ma anche se la carta è riciclata al 100%, ciò non significa necessariamente che sia più sostenibile. Tale carta può essere fortemente sbiancata nel tentativo di conferire l’aspetto bianco brillante della carta non riciclata. In tal caso, la carta riciclata potrebbe sprecare più acqua e creare più inquinamento rispetto alla carta normale.

Celebri sono anche gli esempi che riscontriamo nell’insostenibile settore del Fast Fashion, dove si sfornano decine di collezioni l’anno, vendute a prezzi irrisori in tutto il mondo. Questi brand sfornano qualche collezione “verde” “responsabile” che oltre a non esserlo realmente, è insignificante rispetto all’enormità del resto del business che non hanno intenzione di abbandonare.

Come possiamo difenderci dal Greenwashing?

Contenuto riciclato, meno imballaggi e altre dichiarazioni ambientali, possono comportare un minore impatto ambientale complessivo. Ma, alcune azioni possono richiedere compromessi che annullano qualsiasi miglioramento. In ogni caso, una singola modifica è raramente sufficiente per classificare un prodotto come “sostenibile” o per dare a un’azienda il tipo di vantaggio di mercato che dovrebbe conferire offrire un prodotto veramente migliore. Un esempio su tutti: la carne e i latticini, che sono i prodotti più impattanti a livello ambientale, se confezionati in contenitori monouso di plastica riciclata, non diventano più sostenibili.

Se un prodotto viene pubblicizzato come “più efficiente del 25%” la confezione o il sito web dovrebbero dirci un paio di cose: con che altro tipo di prodotto si confronta e come è stata misurata l’efficienza. Se un’azienda può supportare la sua dichiarazione di eco-compatibilità con dati concreti, ha tutte le ragioni per renderla disponibile ai consumatori.

Se non si riesce a identificare in modo specifico in che modo la dichiarazione vada a vantaggio dell’ambiente, probabilmente si è individuato un caso di Greenwashing. Una piccola ricerca sul sito ufficiale dell’azienda o su siti di divulgazione attendibili, prima di acquistare una nuova categoria di prodotto, rivelerà quali sono le questioni ambientali rilevanti. La sostenibilità ambientale per essere reale e quindi credibile deve sempre essere misurabile e documentabile.

Ma in Italia è legale?

Fino al 2014, in Italia non esisteva un riferimento legislativo specifico per il Greenwashing, ma il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”.

Oggi, il Greenwashing è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Il 26 novembre 2021 è stata emessa la prima ordinanza cautelare di un Tribunale italiano in materia di Greenwashing, un atto che risulta essere tra i primi anche in Europa.