Ultra fast fashion senza dazi, in Ue oltre 12 milioni di pacchi al giorno

Confcommercio lancia l’allarme sull’ultra fast fashion: milioni di capi senza dazi invadono l’Europa, mettendo a rischio ambiente e lavoro

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Giorgia Bonamoneta

Giornalista

Nata ad Anzio, dopo la laurea in Editoria e Scrittura e un periodo in Belgio, ha iniziato a scrivere di attualità, geopolitica, lavoro e giovani.

Pubblicato: 3 Novembre 2025 17:57

Ormai lo sappiamo: il mercato della moda sta cambiando, e non per forza in meglio. La trasformazione che sta vivendo è trainata dalla logica del “tutto e subito”, alimentata da una corsa al consumo di capi sempre nuovi, ma soprattutto sempre più economici. Dietro il prezzo basso c’è però lo sfruttamento delle risorse naturali, della manodopera e spesso anche dei consumatori, che si ritrovano vittime di furti di dati. Il prezzo della fast fashion è quindi piuttosto alto.

Dal presidente della Federazione Moda Italia Confcommercio arriva un nuovo allarme. Giulio Felloni chiede al Governo e all’Unione Europea misure urgenti per contrastare il fenomeno dell’ultra fast fashion, capace di mettere in circolazione ogni giorno in Europa 12 milioni di pacchi dal valore inferiore a 150 euro. Cosa vuol dire? Che sono esenti da dazi e quindi spesso riescono a sfuggire ai controlli.

12 milioni di pacchi senza dazi in Ue

Confcommercio guarda i dati sui pacchi in circolazione in Europa ed è preoccupata principalmente per il Made in Italy, ma non può non citare anche l’impatto ambientale del fenomeno dell’ultra fast fashion. Uno dei principali canali attraverso cui si muove la fast fashion globale sono proprio le esenzioni doganali. In Europa funziona in questo modo: per le spedizioni extra-Ue sotto i 150 euro non ci sono dazi.

Questo permette a milioni di capi, prodotti principalmente in Asia, di arrivare ai consumatori europei senza controlli e senza neanche versare un centesimo di dazio. Secondo Confcommercio è proprio questo sistema che sottrae risorse alle casse pubbliche da un lato e mette in difficoltà il commercio tradizionale dall’altro.

La Federazione propone tre misure:

  • l’abolizione dell’esenzione dai dazi sotto i 150 euro;
  • l’introduzione di un contributo ambientale per ogni spedizione extra-Ue;
  • l’estensione delle responsabilità del produttore, anche a chi produce fuori dall’Unione ma vende in Italia o in Ue.

La proposta arriva come un pacchetto di norme che punta a riequilibrare il mercato e sostenere la moda, “un asset economico ma anche un presidio sociale”, come sottolinea Felloni. In gioco non ci sarebbe solo la competitività delle imprese italiane, ma anche la sostenibilità dell’intera filiera.

Qual è l’impatto dell’ultra fast fashion sull’ambiente?

Le aziende in Italia e in Europa devono sottostare a norme sempre più stringenti in tema di impatto ambientale. I produttori dell’ultra fast fashion possono venir meno a queste regole, di fatto proponendo articoli a un prezzo molto conveniente proprio perché non devono rispettarle.

Tutto l’assetto delle norme, però, si è reso necessario perché l’industria della moda è oggi responsabile del 10% delle emissioni globali di CO₂. Secondo i dati della Commissione Europea, solo in UE generiamo 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili all’anno, dei quali appena il 22% viene riutilizzato o riciclato. Secondo i dati Onu, invece, il settore globalmente produce oltre 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno.

C’è poi la questione delle risorse utilizzate: per produrre una semplice T-shirt servono, per esempio, 2.700 litri d’acqua, l’equivalente di ciò che una persona beve in tre anni. E se pensiamo che un capo di questo tipo viene indossato in media sette volte prima di essere gettato, il costo di produzione, fatto di materie e risorse, è fin troppo alto.

Il problema della fast fashion, quindi, non è soltanto la qualità del capo o l’impatto sulla filiera italiana, ma le conseguenze indirette che ha su molti altri aspetti della vita quotidiana.

Pressione sul settore moda: cosa possono fare i consumatori

La sfida non riguarda solo le istituzioni: anche i consumatori possono fare la differenza. Felloni invita a “scegliere prodotti di qualità, duraturi e responsabili, in alternativa alla moda usa e getta”. È una scelta che ha un impatto reale: acquistare meno capi e prediligere quelli di filiera trasparente riduce le emissioni, limita gli sprechi e sostiene il lavoro artigianale.

Alcuni brand italiani stanno già sperimentando modelli circolari: collezioni prodotte con fibre rigenerate, programmi di riparazione e riuso, piattaforme di resale e noleggio. Parallelamente, l’Unione Europea sta lavorando alla Strategia per il Tessile Sostenibile 2030, che prevede etichette di impatto ambientale e il divieto dei capi “a vita breve”.

E dove viene meno la possibilità economica, esistono altri sistemi per non sostenere l’ultra fast fashion e ridurre l’impatto su ambiente e sfruttamento umano. Tra le proposte dal basso ci sono gli swap party, ma anche il vintage, i mercatini dell’usato o la riparazione.