Il confronto previsto per domani tra Giorgia Meloni e Donald Trump si prefigura come un passaggio obbligato per chi, come la premier italiana, ha deciso di mettere la faccia su una scommessa personale e politica. Non è solo un tête-à-tête formale, ma una prova di resistenza in un momento in cui l’Europa guarda con nervi tesi ogni deviazione dal binario comune. Sul tavolo non ci sono solo le tariffe, ma una visione del mondo che rischia di far saltare la fragile intesa tra le sponde dell’Atlantico.
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Il legame Meloni-Trump affonda le radici prima del vertice
Il rapporto tra Giorgia Meloni e Donald Trump non nasce oggi. A gennaio, la premier aveva fatto tappa in Florida, ospite dell’ex presidente nel suo sancta sanctorum di Mar-a-Lago. Un mese prima, si erano incrociati a Parigi, a margine di una cena all’Eliseo: tra i due, sorrisi strategici e parole scambiate lontano dai microfoni. Il punto non è il folklore dei gesti o la mondanità delle location, ma la costruzione metodica di una relazione politica coltivata da tempo e in modo tutt’altro che improvvisato.
Viaggio a Washington tra sfide europee e strategie parallele
Il viaggio negli Stati Uniti viene letto in Europa con una combinazione di sospetto e rassegnazione. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si sarebbe coordinata con Meloni prima della partenza, ma le capitali più esposte alla competizione commerciale americana restano guardinghe. Il ministro francese dell’industria, Marc Ferracci, ha espresso preoccupazioni concrete: un’iniziativa individuale rischia di incrinare il fronte comune europeo, soprattutto mentre l’amministrazione statunitense minaccia una nuova stretta doganale.
Tuttavia, nella consueta logica per cui ogni margine operativo va esplorato, c’è chi interpreta la mossa di Meloni come un tentativo di inserirsi in uno spazio diplomatico lasciato scoperto da Bruxelles. Dopo settimane di colloqui sterili, l’ultimo dei quali tra il segretario al Commercio Howard Lutnick, il governo italiano ritiene che valga la pena rischiare un’iniziativa autonoma.
Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ha definito Meloni la più indicata per un confronto schietto con Trump. Una valutazione che riflette la convinzione, a Palazzo Chigi, che solo con un linguaggio diretto e non diplomatico si possa ottenere una qualche apertura da un interlocutore imprevedibile e poco incline ai formalismi multilaterali.
Ucraina, Cina e diplomazia: il fragile equilibrio della premier
Sulla questione ucraina, il governo Meloni ha scelto una linea meno prevedibile rispetto a quella dei partner europei: l’astensione sull’ultima risoluzione di sostegno a Kiev al Parlamento europeo è stata letta come un segnale di disallineamento, più che di prudenza. Una decisione che ha suscitato irritazione tra le cancellerie che spingono per una postura compatta sul fronte orientale.
Allo stesso tempo, la premier ha tentato di ricalibrare i rapporti con la Cina dopo l’uscita dall’Iniziativa Belt and Road, mantenendo però una distanza tattica dalle aperture più marcate di Bruxelles verso Pechino. L’Italia, in questa fase, si muove cercando di non perdere contatto con nessuno degli attori strategici, evitando però di vincolarsi a scelte europee.
Pressioni interne e asse Vance-Salvini: i nemici (non) invisibili
Sul fronte interno, Meloni deve gestire alleati che non sempre remano nella stessa direzione. Matteo Salvini, leader della Lega e vicepremier, insiste su una linea apertamente filo-Trump, attaccando la posizione europea sull’Ucraina e suggerendo un riavvicinamento alla postura americana.
In parallelo, JD Vance, figura centrale nella galassia trumpiana, è stato ricevuto a Roma senza che Palazzo Chigi prendesse pubblicamente le distanze dalle sue uscite più controverse. Il governo, in apparenza compatto, riflette in realtà una tensione strutturale tra il posizionamento internazionale della premier e le spinte ideologiche di chi la affianca.
Made in Italy sotto attacco: la battaglia per salvare le esportazioni
Il nodo commerciale è il punto nevralgico del viaggio. L’Italia, tra i principali fornitori europei del mercato statunitense, ha un’esposizione sensibile a qualsiasi manovra tariffaria. A Roma si studia da settimane una strategia per limitare i danni su settori ad alta intensità di export: alimentare, meccanica, moda, automotive, farmaceutica. Settori che reggono una parte non trascurabile del surplus commerciale italiano con gli Stati Uniti, stimato attorno ai 40 miliardi di euro.
Meloni è consapevole che un aggravio tariffario, anche parziale, metterebbe in crisi intere filiere e ne comprometterebbe la competitività. Il governo considera i tre mesi di sospensione decisi da Washington come una finestra negoziale minima, ma sufficiente per tentare un’azione diplomatica mirata.
Il mito della “prescelta”: Trump ascolta davvero Meloni?
Per Sandro Gozi, eurodeputato di Renew Europe, l’idea che Meloni possa rappresentare l’intera Europa agli occhi di Donald Trump è priva di basi reali.
“Ha alimentato l’illusione di essere la prediletta di Trump, ma questo non corrisponde alla realtà”, afferma al Guardian.
Secondo lui, se davvero il presidente americano intenderà aprire un canale con l’Unione, lo farà con la Commissione, non con governi nazionali. Una valutazione che riflette una dinamica consolidata: nei dossier strategici, Washington non cerca interlocutori isolati, ma entità che possano garantire tenuta negoziale su scala continentale.
La strategia di Palazzo Chigi si regge su un elemento che, in altri contesti, verrebbe definito secondario: il rapporto personale. Meloni punta sulla relazione diretta con Donald Trump come leva per aggirare i canali multilaterali, finora inefficaci. Il ragionamento è semplice: la diplomazia classica ha prodotto risultati marginali, mentre un interlocutore imprevedibile come Trump richiede contatto umano, non solo tecnica.
Fonti governative sostengono che, tra i leader europei, Meloni sia l’unica ad aver costruito un’intesa funzionale con l’ex presidente americano. Non è un caso che i precedenti tentativi di altri capi di governo, fondati su formule convenzionali, si siano arenati.
Dazi, Bruxelles e i silenzi francesi: come l’Ue giudica Meloni
A Bruxelles si osserva la mossa italiana con attenzione. Le critiche iniziali, soprattutto da parte francese, si sono stemperate di fronte al realismo geopolitico: Meloni ha un piano e agisce nello spazio che altri non occupano, assumendosi il rischio di un’iniziativa personale, ma potenzialmente utile anche per il blocco. Una fonte diplomatica ha chiarito che l’iniziativa è considerata compatibile con la linea comune, finché non se ne discosta in modo sostanziale.
A Roma, intanto, si consolida la cabina di regia. Meloni ha convocato a Palazzo Chigi un vertice ristretto con i ministri chiave: Salvini, Tajani, Crosetto, Foti e Giorgetti. Il messaggio è duplice: mostrare coesione interna e costruire una posizione negoziale che abbia dignità politica prima ancora che tecnica. Tajani ha ribadito la natura “pacificatrice” del viaggio e ha rivendicato la linea attendista suggerita fin dall’inizio da Roma. Anche Raffaele Fitto, da Bruxelles, ha definito il periodo di tregua commerciale concesso da Trump come uno spazio utile per provare a costruire un impianto regolatorio più gestibile.