Privatizzazioni, il governo studia la cessione di Eni, con un incasso di 2 miliardi di euro

La vendita potrebbe così inaugurare la nuova stagione delle privatizzazioni che punta a 20 miliardi di euro

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Sono già in corso le operazioni volte alla vendita di porzioni dei beni nazionali. Pur facendo affidamento sulle risposte evasive riguardo all’eventualità di mettere sul mercato una parte significativa delle azioni dell’Eni, il governo sta attuando il suo piano di privatizzazioni.

Si prevede di cedere fino al 4% del gigante petrolifero, corrispondente alla quota attualmente detenuta dal Ministero dell’Economia, al fine di ottenere un introito di circa due miliardi di euro. Va sottolineato che ciò non comporterebbe la perdita del controllo pubblico, poiché oltre al 4%, un ulteriore 27% è ancora in mano alla Cassa Depositi e Prestiti, l’istituzione finanziaria legata all’Erario.

Il peso del debito pubblico

L’indiscrezione si allinea con la strategia generale delineata da Giorgia Meloni, che prevede la vendita parziale delle risorse mantenendo comunque la maggioranza. Questo è parte di un piano ambizioso volto a raccogliere circa venti miliardi entro il 2026.

«L’impostazione del governo è lontana anni luce dal passato, quando erano regali milionari a fortunati imprenditori ben inseriti», assicura Meloni, «la mia idea è ridurre la presenza dello Stato dove non è necessaria e riaffermarla dove lo è. Questo riguarda il tema della riduzione di quote di partecipazione statale che non riduce il controllo pubblico, e questo potrebbe essere il caso di Poste, mentre penso ci sia la possibilità di fare entrare i privati in società dove c’è il totale controllo pubblico come in Ferrovie».

I proventi non saranno destinati alle spese correnti, come ad esempio la prossima manovra, ma verranno impiegati per ridurre il considerevole debito pubblico italiano, attualmente superiore ai 2.800 miliardi di euro e previsto in una lieve discesa in proporzione al PIL. In termini pratici, l’ammontare sarebbe una frazione minima del debito complessivo, ma costituirebbe un segnale rassicurante per gli investitori stranieri. Quest’anno, infatti, l’Italia chiederà loro finanziamenti per circa 350 miliardi di euro attraverso l’emissione di titoli di Stato, senza poter contare sul supporto diretto degli acquisti della Banca Centrale Europea.

Ipotesi vendita per Poste e Ferrovie

Per raggiungere l’obiettivo di privatizzazione, è evidente che la cessione dell’Eni da sola non sarà sufficiente. Sul tavolo è stata posta anche l’opzione di mettere in vendita una parte di Poste Italiane, attualmente posseduta al 64% dallo Stato. La decisione su quanto lasciare ai privati è ancora in sospeso: ridurre la quota pubblica del 50% frutterebbe quasi quattro miliardi di euro, mentre mantenere il 51% porterebbe un introito notevolmente inferiore, pari a 1,7 miliardi. In ogni caso, i tempi previsti sarebbero più estesi rispetto a quelli impiegati per la cessione del 25% di Monte dei Paschi di Siena a novembre, che è avvenuta in modo rapido ma senza garantire il massimo guadagno.

Inoltre, l’attenzione sembra rivolta anche alle Ferrovie dello Stato, attualmente interamente di proprietà pubblica. La vendita del 49% potrebbe generare fino a cinque miliardi di euro, anche se finora si è parlato di un coinvolgimento minoritario di privati solo nella società responsabile del trasporto ferroviario, lasciando binari e stazioni sotto il controllo pubblico. Quest’idea era stata proposta otto anni fa, ma fino ad ora non ha visto alcun sviluppo concreto.

Le altre partecipate che potrebbero essere vendute

Secondo quanto riportato dalla Stampa, la lista delle partecipate coinvolte potrebbe estendersi includendo Fs, Enel, Snam, Terna e Leonardo. Il governo avrebbe l’intenzione di raccogliere 21 miliardi di euro entro il 2026 attraverso queste operazioni. Tuttavia, la cessione di quote di Eni e Poste potrebbe avere un impatto limitato sulla riduzione del debito e comporterebbe la rinuncia ai dividendi, poiché il 4% del gruppo di Descalzi, ad esempio, valutato a 2 miliardi, comporterebbe una riduzione degli interessi annui di soli 94 milioni di euro.

Il ministro dell’Economia sembra desideroso di trovare investitori per finanziare il debito e raccogliere risorse in vista della manovra, ma, secondo Repubblica, al momento i grandi capitali non sembrano particolarmente interessati a queste iniziative. La sfida potrebbe quindi essere quella di attrarre investitori disposti a partecipare a queste operazioni di razionalizzazione del patrimonio delle partecipate.

Quali sono le aziende partecipate dello Stato

Al 31 dicembre 2023, l’Italia mantiene un coinvolgimento significativo in diverse aziende, sia attraverso partecipazioni totali che parziali. Le imprese con partecipazione totale, ossia possedute al 100% dallo Stato, includono Anas, Ferrovie dello Stato Italiane (FS), Invitalia, Cinecittà, ITA Airways, Rai, Ansaldo Energia, Eur, Fincantieri, Rai Way, Poste Italiane.

D’altra parte, sono numerose le aziende in cui lo Stato italiano detiene una partecipazione parziale. Ad esempio, Open Fiber è posseduta al 60%, Enav al 53,3%, Autostrade per l’Italia al 51%, Eni al 32,34%, Snam al 31,35%, Leonardo al 30,2%, Redo Sgr al 30%, Terna al 29,85%, Italgas al 26%, Enel al 23,58%, Trevi al 21,28%, Webuild al 16,4%, StMicroelectronics al 13,82%, Nexi al 12,8%, Saipem, Tim al 9,81%, Euronext al 7,3%.

Complessivamente, al termine del 2023, lo Stato italiano controlla direttamente 12 aziende a livello totale e detiene quote in altre 28 aziende in modo parziale. Questo evidenzia un coinvolgimento significativo del governo nelle dinamiche e nella gestione di un totale di 40 aziende.

  • Anas (100%)
  • Ferrovie dello Stato Italiane (FS) (100%)
  • Invitalia (100%)
  • Cinecittà (100%)
  • ITA Airways (100%)
  • Rai (100%)
  • Ansaldo Energia (100%)
  • Eur (100%)
  • Fincantieri (100%)
  • Rai Way (100%)
  • Poste Italiane (100%)
  • Open Fiber (60%)
  • Enav (53,3%)
  • Autostrade per l’Italia (51%)
  • Eni (32,34%)
  • Snam (31,35%)
  • Leonardo (30,2%)
  • Redo Sgr (30%)
  • Terna (29,85%)
  • Italgas (26%)
  • Enel (23,58%)
  • Trevi (21,28%)
  • Webuild (16,4%)
  • StMicroelectronics (13,82%)
  • Nexi (12,8%)
  • Saipem
  • Tim (9,81%)
  • Euronext (7,3%)

Le parole di Giorgetti

Il Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, enfatizza che è più appropriato parlare di razionalizzazione del patrimonio delle partecipate anziché di privatizzazioni. Questo approccio implica che il governo decida di aumentare la sua partecipazione in alcune realtà e di cedere quote in altre, con l’obiettivo di rendere l’intero sistema più efficiente, razionale e allineato con le esigenze contemporanee. Giorgetti sottolinea l’importanza di attrarre “investitori pazienti” e chiarisce che l’obiettivo non è semplicemente fare cassa.

Il Ministro indica che in NetCo si sta procedendo con una rinazionalizzazione, auspicando l’entrata di investitori con una visione a lungo termine. Sulle infrastrutture e sulle società critiche, escludendo il golden power, Giorgetti ritiene benefico coinvolgere sia soggetti nazionali che internazionali, evitando prospettive meramente speculative.

Affrontando le sfide del commercio mondiale, Giorgetti evidenzia che una crisi causata da guerre e tensioni geopolitiche sarebbe dannosa per l’Italia, che necessita di mercati globali aperti. Sottolinea la necessità di comprendere come l’Europa intenda gestire gli investimenti, specialmente per la transizione in settori strategici come l’acciaio, suggerendo l’adozione di forme europee di prelievo alla frontiera.

Il Ministro commenta anche la situazione economica dell’area euro, affermando che sta entrando in recessione. Osserva che l’inflazione è temporaneamente scesa grazie ai costi dell’energia, ma avverte che puntare rapidamente al 2% alzando i tassi potrebbe condurre a una recessione, con il rischio di stagflazione se la strategia non dovesse funzionare. Infine, Giorgetti propone un approccio flessibile al Patto di stabilità, considerando la necessità di adattarsi in caso di calo del tasso di crescita.