La tutela del whistleblower in Italia: conviene “soffiare il fischietto”?

Quali sono le caratteristiche e, soprattutto, le tutele del whistleblowing, fenomeno di derivazione anglosassone oggetto di una recente ed innovativa disciplina.

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Domenico Tambasco

Avvocato

Nato a Milano, ha sempre considerato la difesa dei diritti la sua prima vocazione, diventando una scelta naturale la carriera forense. Diplomato presso il Liceo Classico Omero di Milano con 60/60, si è laureato a pieni voti in Giurisprudenza presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore nel 2000, con una tesi sul "Principio di legalità nella codificazione pio-benedettina" che è stata successivamente pubblicata su Rivista di Diritto Ecclesiastico, fasc. 1/2002.

In questo contributo esaminiamo quali sono le caratteristiche e, soprattutto, le tutele del whistleblowing, fenomeno di derivazione anglosassone oggetto di una recente ed innovativa disciplina.

Che cos’è il whistleblowing?

Partiamo da Serpico, noto film degli anni ’70 diretto da Sidney Lumet, per parlare del fenomeno del whistleblowing, che letteralmente significa “soffiare il fischietto” (to blow the whistle); restano in mente le parole di Ted Benadies che, nei panni di Sarno, pronuncia queste parole al collega Frank Serpico, descrivendogli le grandi difficoltà affrontate per incrinare il muro di omertà eretto dai colleghi del New York Police Department nei confronti delle prime denunce di corruzione presentate dai cittadini e dai media: “E così uno tira avanti, a meno che uno non torna a mettere l’uniforme e ricomincia a soffiare nel fischietto”.

E’ il sibilo del fischietto del poliziotto che si accorge della commissione di un illecito e lo segnala per richiamare l’attenzione dei presenti; fuor di metafora, il whistleblowing si può definire come la rivelazione, da parte di un dipendente, di condotte illegali, immorali o illecite tenute dal datore di lavoro a persone od organizzazioni che possano intervenire al fine di impedire le suddette condotte, ovvero al fine di rimuoverne gli effetti.
Queste prime considerazioni ci fanno capire come si tratti di un fenomeno di derivazione anglosassone, “trapiantato” in Europa solo di recente, ed oggetto di una faticosa opera di adeguamento (ancora non completata) da parte dell’Italia.

Le norme di legge in materia di whistleblowing

Precisiamo in primo luogo che la disciplina del whistleblowing nell’ordinamento giuridico italiano si basa sulle seguenti fonti normative:

  •  Direttiva 2019/1937/Ue, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione (il cui termine per il recepimento in Italia è scaduto il 17 dicembre 2021);
  • Legge 30 novembre 2017, n. 179, Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato (in G.U. 14 dicembre 2017, n. 291);
  • Art. 54 – bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, rubricato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”;
  • Art. 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, relativo alla tutela del dipendente che segnala illeciti nel settore privato;

I soggetti tutelati

Chi è un whistleblower?

La risposta è semplice: non chiunque presenti una denuncia o una segnalazione di illeciti sul posto di lavoro può considerarsi per ciò stesso meritevole della protezione prevista dalla legge.

Al contrario, la disciplina è rivolta esclusivamente a:

  • Pubblici dipendenti, lavoratori o collaboratori di imprese fornitrici di beni e servizi che realizzano opere per l’amministrazione pubblica i quali, nell’interesse dell’integrità della Pubblica Amministrazione, segnalino al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza o all’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) o all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui siano venuti a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro;
  • Nell’ambito di società, gruppi di società o organizzazioni non governative (onlus, fondazioni, associazioni) private con modello organizzativo di cui al d.lgs. 231/2001, chi è testimone di un illecito o di un’irregolarità sul luogo di lavoro e decida si segnalarlo attraverso gli appositi canali previsti dall’organizzazione della 231/2001. In particolare, tra i soggetti legittimati rientrano certamente le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale e finanziaria nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso, nonché a persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno di tali soggetti

Possiamo già trarre un punto fermo da queste schematiche nozioni: il whistleblowing è un fenomeno esclusivamente connesso e legato al rapporto lavorativo, che in ragione della superiore esigenza di garantire la legalità nell’ambito delle attività lavorative consente una deroga al dovere di fedeltà che, in linea di principio, vincola il lavoratore al proprio datore di lavoro. La tutela prevista in materia, come vedremo, protegge dalle possibili reazioni disciplinari (e non solo) del datore di lavoro che, in assenza di una specifica previsione legislativa, potrebbe arrivare anche al licenziamento del dipendente segnalante.

Gli atti protetti

La disciplina di legge prevede anche gli atti oggetto di protezione, distinguendo tra pubblico impiego e impiego privato

  1. Pubblico impiego, in cui rileva la segnalazione al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza o all’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) o la denuncia all’Autorità Giudiziaria ordinaria o a quella contabile, fatta nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, di condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro;
  2. Impiego privato, in cui viene riconosciuta la tutela alla segnalazione circostanziata di condotte illecite, fatte a tutela dell’integrità dell’ente privato di appartenenza, secondo le forme e le modalità indicate nei modelli organizzativi di cui al d.lgs. 231/2001

La segnalazione o la denuncia ritualmente presentata consente al whistleblower di essere esonerato dall’obbligo di segreto previsto dagli articoli 326, 622 e 623 del codice penale e dall’obbligo di fedeltà prescritto dall’art. 2105 codice civile, a meno che non si tratti di un soggetto che sia venuto a conoscenza dell’informazione in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata.

Quali sono le tutele per i whistleblowers?

Fondamentali, allo scopo di incentivare le denunce di condotte lavorative illecite, sono in quest’ottica le misure di protezione previste dall’ordinamento, che sono le seguenti:

  • Riservatezza dell’identità del soggetto segnalante e della stessa segnalazione, che è sottratta al diritto all’accesso previsto dalla legge 241/1990;
  • Tutela del segnalante rispetto agli eventuali atti ritorsivi o alle rappresaglie del datore di lavoro, non potendo essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad un’altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. In questo caso, la legge prevede da un lato la presunzione di nullità dei suddetti provvedimenti, sulla base della semplice consequenzialità cronologica tra segnalazione e provvedimento datoriale pregiudizievole e, dall’altro, la cosiddetta “inversione dell’onere della prova”, essendo necessario che il datore di lavoro provi, in modo rigoroso, che la misura organizzativa è motivata da ragioni estranee alla segnalazione del dipendente;
  • Attività di vigilanza e potere sanzionatorio dell’ANAC per il settore pubblico e dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro per il settore privato, rispetto alle condotte datoriali ritorsive o discriminatorie nei confronti dei whistleblowers.

Né la disciplina europea (ovvero al Direttiva 2019/1937/Ue) né quella nazionale (la L. 179/2017) prevedono invece misure premiali –proprie invece dei sistemi anglosassoni- quali, ad esempio, il riconoscimento di una percentuale delle eventuali somme fatte recuperare all’amministrazione a seguito della denuncia degli illeciti. Per comprendere meglio la differenza rispetto, ad esempio, al sistema americano, si pensi al fatto che nella legislazione statunitense il Dipartimento di giustizia può pagare al whistleblower una ricompensa anche considerevole a favore di chi denunci una frode nei confronti del Governo Federale, che può arrivare fino al 25% di quanto recuperato dalle casse governative in seguito alla segnalazione.

Prassi amministrativa e giurisprudenziale

L’effettiva applicazione delle tutele riconosciute dalla legislazione si sta tuttavia facendo largo con grande difficoltà in Italia. Basti pensare al fatto che, con riferimento ad ANAC, nel corso dell’anno 2020 sono stati definiti 21 procedimenti relativi a segnalazioni di atti ritorsivi, con l’irrogazione di sole 3 sanzioni (peraltro nella misura minima di 5.000,00 euro): ovverosia solo il 14,3% delle segnalazioni considerate ammissibili e trattate nel 2020 ha visto l’intervento sanzionatorio dell’Autorità anticorruzione.
Non diverso è il discorso per la giurisprudenza: di recente, infatti, sia un’ordinanza del Tribunale di Milano, sezione lavoro, 3 febbraio 2022, est. Moglia sia una sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, 7 gennaio 2022, n. 2, est. Lapenta hanno, con differenti argomentazioni, negato la tutela contro le misure ritorsive adottate ai danni di whistleblowers. Interessante, a tal fine, è la motivazione data dal Tribunale di Milano, che ha sostenuto come la sola presentazione di denunce non assicuri al dipendente una totale immunità e impunità rispetto a comportamenti estranei ai fatti denunciati, tenuto conto soprattutto del fatto che al datore di lavoro “non è precluso il potere disciplinare né l’adozione di provvedimenti sanzionatori che riguardino condotte del dipendente diverse da quelle di cui si è fatto delatore, provvedimenti che, quindi, se adottati, non sono, presuntivamente nulli, ma necessitano dell’ordinario vaglio di legittimità, come ogni altro provvedimento di tal natura”.