La prima carne creata in laboratorio (coltivata) è stata approvata per la vendita negli Stati Uniti. Due società con sede in California, Upside Foods e Eat Just, hanno ricevuto l’ok dal Dipartimento dell’Agricoltura USA. È l’autorizzazione finale necessaria a ciascuna azienda per iniziare la produzione e la commercializzazione. Presto, quindi, arriverà nei ristoranti e nei supermercati. E no, non è una cattiva notizia.
Carne sintetica, al di là dei pregiudizi: perché è una buona notizia
Negli ultimi mesi si è parlato molto dell’argomento e persino il Governo Meloni si è schierato contro la carne sintetica (ve ne abbiamo parlato qui: “L’Italia dice no alla carne sintetica”). Le notizie che ci arrivano dall’America oggi, però, non sono in realtà cattive e dovrebbero essere analizzati tenendo conto del futuro a cui andiamo incontro.
L’agricoltura animale costituisce quasi il 15% delle emissioni globali di gas serra causate dall’uomo e un numero crescente di aziende sta lavorando per portare sul mercato alternative che abbiano il potenziale per ridurre le emissioni. Si cercano, quindi, soluzioni a minor impatto ambientale.
Produrre carne (e in generale gli allevamenti intensivi) ha un effetto negativo sui cambiamenti climatici. Inoltre, ad oggi, quando si parla di prodotti alternativi ma nutrienti, spesso le proposte si limitano a verdure e cibi di origine vegetale. Upside Foods e Eat Just, così come altre aziende di carne coltivata, stanno quindi realizzando concretamente prodotti utilizzando cellule animali coltivate in bioreattori, ma con campioni di tessuto di animali vivi che vengono isolati e le loro cellule coltivate in laboratorio. Man mano che queste cellule crescono e si moltiplicano, possono essere trasformate in cibo, senza generare emissioni dannose. È, quindi, una buona notizia.
Pollo in laboratorio, al via negli Stati Unici
Singapore è stato il primo paese ad approvare la carne coltivata, dando a Good Meat, la divisione di carne coltivata di Eat Just, il via libera per vendere il suo pollo coltivato nel 2020. Eat Just è stata fondata nel 2011 e negli USA l’azienda si occupata anche di produrre altri cibi a base vegetale in laboratorio , inclusa un’alternativa all’uovo.
Le approvazioni arrivate dalle autorità americane sono prime nel loro genere negli Stati Uniti e potrebbero fare da apripista a molti altri Paesi in questo senso. Da quello che è emerso dalle prime news pubblicate dai giornali Oltreoceano, le due aziende partiranno dalla produzione di pollo in laboratorio, che sarà la prima carne che metteranno in commercio (nei supermercati e nei ristoranti) .
Infatti, a giugno, l’USDA (United States Department of Agriculture) ha concesso l’approvazione per le etichette di entrambe le società, permettendo così la vendita dei prodotti con il nome di “pollo coltivato in cellule”. Ottenute tutte le autorizzazioni del caso, quindi, Upside Foods e Eat Just possono produrre e vendere i loro prodotti al pubblico.
In particolare, gli amministratori delle società hanno fatto sapere che hanno intenzione di iniziare dai ristoranti prima di passare alle vendite al dettaglio. Il pollo coltivato di Eat Just sarà venduto prima in un ristorante ancora non rivelato a Washington, DC, mentre la carne sintetica di Upside, che produce in una struttura pilota in California, dovrebbero essere disponibile entro la fine dell’estate al Bar Crenn, un ristorante di San Francisco.
E in Italia?
Singapore e gli Stati Uniti sono finora gli unici due paesi in cui i prodotti alimentari coltivati in laboratorio possono essere venduti legalmente ai consumatori. In UE, invece, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare sta ancora valutando i potenziali rischi associati ai prodotti animali coltivati, ma già la posizione dell’Italia (o per meglio dire del Governo Meloni) è stata chiara al riguardo. Il 28 marzo 2023, infatti, il ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha annunciato che il Paese sarebbe diventato il primo a vietare gli alimenti coltivati in laboratorio. Il motivo del divieto proposto è principalmente quello di proteggere gli agricoltori italiani. Ma il governo ha anche espresso preoccupazione per la qualità degli alimenti sintetici e la loro minaccia per l’orgoglioso patrimonio culinario italiano.
Qualcuno potrebbe però dire che ci si sta preoccupando di guardare il dito e non la luna. Gli allevamenti intensivi e quindi la produzione di carne (non in laboratorio) sono una delle principali fonti di inquinamento oggi. E se non si trovano soluzioni efficaci per contrastare i cambiamenti climatici, il patrimonio culinario italiano così come le varie realtà economiche che operano nel settore avranno presto altri problemi da fronteggiare, rispetto alla concorrenza che la produzione di carne sintetica rappresenta.
La “carne coltivata in laboratorio” prevede un processo di coltivazione di prodotti animali a partire dalle cellule animali, in un ambiente di laboratorio controllato. Il processo elimina molti dei problemi ambientali, ma anche quelli legati al benessere degli animali e alla salute umana, associati oggi invece ai sistemi di allevamento industriale. La carne sintetica ha quindi il potenziale per offrire una fonte di cibo molto più sostenibile rispetto all’allevamento animale tradizionale, a partire dalla riduzione di potenziali epidemie o pandemie.
Gli scienziati possono far crescere sinteticamente il tessuto muscolare riproducendo il processo di rigenerazione cellulare che si verifica naturalmente nei muscoli di un animale. Questo compito è svolto dalle cellule staminali, specializzate nella divisione cellulare, che vengono raccolte ottenendo un campione di tessuto da un animale vivente, prima di essere isolate e coltivate in condizioni che assomigliano al corpo dell’animale.
Una gamma di altri prodotti animali può essere coltivata in laboratorio, inclusi frutti di mare e latte. Attualmente ci vogliono circa quattro settimane per produrre un hamburger.
L’impatto climatico della produzione di carne
Vi sono crescenti preoccupazioni circa l’impatto climatico della produzione di carne. Basti pensare che, attualmente, la sola produzione di bestiame consuma il 70% della terra arabile mondiale e utilizza grandi quantità di acqua. Questo potrebbe aumentare ulteriormente in futuro, poiché si prevede che il consumo di carne raddoppierà entro il 2050 con la crescita della classe media in Cina, Brasile, India e in tutta l’Africa.
Ma, se ampliata, la carne coltivata in laboratorio utilizzerebbe sostanzialmente meno terra e acqua. Le recenti ricerche indicano che per produrre 1 kg di carne coltivata in laboratorio è necessario circa il 99% in meno di terra rispetto a quella che dovrebbe essere utilizzata dagli allevamenti europei per produrre la stessa quantità. Produrre 1 kg di carne in un laboratorio richiederebbe anche tra l’82% e il 96% in meno di acqua rispetto a un allevamento tradizionale, a seconda del prodotto confrontato.
Coltivare carne da cellule può anche ridurre il rischio di sviluppo di malattie e prevenire inutili sofferenze agli animali.
Ci sono evidenti problemi di benessere associati all’affollamento degli animali nelle fattorie. Ma, al di la delle convinzioni etiche e morali, queste condizioni anguste rendono anche più probabile lo sviluppo e la diffusione di malattie come l’influenza aviaria, il morbo della mucca pazza e il virus della peste suina africana.
È vero, gli allevatori usano antibiotici per prevenire la diffusione di malattie, ma il loro uso eccessivo sta contribuendo a un aumento della resistenza agli antibiotici. Le Nazioni Unite stimano che, entro il 2050, la resistenza agli antibiotici porterà a più morti del cancro in tutto il mondo.
I prodotti a base di carne che vengono coltivati da cellule sono infine privi di contaminazione da batteri fecali come E. coli, Salmonella e Listeria. Questi batteri vivono all’interno dell’intestino di un animale e possono contaminare la carne quando l’animale viene macellato.
Quindi, la carne coltivata in laboratorio ha il potenziale per rendere il nostro sistema alimentare più sostenibile, ma questo nuovo approccio richiede anche soluzioni politiche e una normativa adeguata. E, come dimostra il divieto dell’Italia, c’è poca volontà nel percorrere questo sentiero.