Il maxi attacco di Hamas del 7 ottobre e la terribile risposta di Israele sui civili di Gaza sono le due facce della stessa medaglia. Una medaglia forgiata al fuoco dell’odio etnico, senza girarci intorno, e dell’incompatibilità esistenziale tra i due schieramenti politici. Nonostante gli appelli, le pressioni e le speranze occidentali e di altre parti del mondo, la soluzione a due Stati (israeliano e palestinese) sembra ormai definitivamente morta e sepolta.
La risposta dello Stato ebraico ai fondamentalisti della Striscia, supportati dall’Iran, si è concentrata ineffabilmente sull’oggi, ponendosi come unico obiettivo la distruzione di Hamas e di un qualunque autogoverno palestinese nel fazzoletto di terra più popoloso del mondo. Inutili lo sprono, soprattutto da parte degli egemoni Stati Uniti, a sviluppare una visione sul “dopo”.
Israele continua a bombardare: il doppio gioco sugli ostaggi
La breve tregua di novembre per lo scambio di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi è apparso subito un fuoco di paglia. Ha dato adito a nuovi risentimenti tra le due fazioni, inasprendo i toni di una già difficile trattativa. La mediazione di Qatar, Egitto e Usa non ha avuto il polso di imporre a Israele lo stop a quello che gran parte del mondo definisce “genocidio”, nonostante eventi rimarcabili come la denuncia del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia e la successiva storica pronuncia secondo cui lo Stato ebraico avrebbe dovuto fare tutto il possibile per “prevenire possibili atti genocidari nella Striscia di Gaza e consentire l’accesso agli aiuti umanitari. Altrimenti? Altrimenti niente, come si è visto, perché la Corte non ha di fatto imposto a Tel Aviv di porre fine all’offensiva.
Ecco che dunque è stato tutto un susseguirsi di “verso l’accordo sugli ostaggi”, “la mediazione riprende”, “spiragli di pace” e altre amenità di questo genere. La realtà dei fatti è che sia Hamas sia Israele hanno trovato occasione e pretesti per smentire passi avanti nei negoziati, accusando la controparte di malafede o di richieste impossibili. Perché, di fatto, le due posizioni sono inconciliabili: Hamas vuole governare Gaza sorretta dal braccio lungo dell’Iran, mentre il governo Netanyahu ha come obiettivo finale il controllo di tutta la fascia di territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del fiume Giordano, inclusa dunque la Cisgiordania in cui coloni ed esercito stanno inasprendo le azioni contro i palestinesi.
Il miraggio dei due Stati in Medio Oriente
A Gaza ormai i morti superano quota 30mila, ed è un calcolo al ribasso. Centinaia di migliaia di sfollati migrati verso sud sono stati attaccati anche a Rafah, a due passi dal confine con l’Egitto. Fin dall’inizio è parso evidente che Israele non aveva alcuna intenzione di stabilire un dopoguerra per la Striscia, se non assumerne il pieno controllo annullando la causa palestinese. Il 29 ottobre, all’inizio dell’invasione di terra da parte di Israele, il presidente americano Joe Biden dichiarò che il conflitto sarebbe dovuto terminare con la soluzione a due Stati. Il 9 gennaio, dopo più di tre mesi di guerra, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito lo slogan, dicendo al governo israeliano che una soluzione duratura “può arrivare solo attraverso un approccio regionale che includa un percorso verso uno Stato palestinese”.
Agli occhi di Tel Aviv, si ripete nella Striscia, i palestinesi sono tutti colpevoli perché Hamas l’hanno votato nel 2006. La tragica risposta militare israeliana ha così accresciuto l’odio verso lo Stato ebraico anche nei Paesi arabi, che tuttavia mantengono viva la possibilità di vittoria strategica di Israele con la normalizzazione dei rapporti sancita dagli Accordi di Abramo. Ma la faglia d’odio sta davvero diventando abissale. Dove dovrebbe sorgere l’ipotetico Stato palestinese? Come ha notato a Limes Hanān ‘Asrawi, portavoce della delegazione palestinese ai colloqui per gli accordi di Oslo del 1993, “il problema non è la smilitarizzazione dell’ipotetico Stato, ma la sua piena sovranità territoriale, l’intangibilità dei confini, il controllo delle risorse idriche senza le quali i palestinesi restano dipendenti dagli aiuti internazionali. Oggi nessun leader israeliano si spenderebbe per una pace giusta”.
L’intransigenza di Israele, la sfiducia della Palestina
Con lo svolgersi della guerra a Gaza, la maggior parte degli israeliani ha sostenuto che non può esserci alcun ritorno allo status quo, intendendo con questo che non ci sarà cessate il fuoco senza “la totale distruzione di Hamas”. Ma le alternative al governo dei fondamentalisti proposte dai leader israeliani hanno il supremo intento di mantenere inalterata la situazione esistente. Cambiare i rami senza toccare l’albero. Lo Stato ebraico non sta conquistando Gaza all’improvviso, perché in realtà non ha mai smesso di controllarla. Lo sa bene la popolazione della Striscia, che da 17 anni ha subìto il gioco e lo schiacciasassi israeliano. Dimostrazione plastica ai vicini della propria potenza militare, se serve anche nucleare, per svolgere quella missione securitaria e attirare chi, come i sauditi, cerca una sponda di protezione dall’Iran. È più accurato dire che Israele, che è stata la potenza sovrana occupante di Gaza per 56 anni sotto diverse configurazioni politiche, sta ancora una volta tentando di riscrivere le regole del suo dominio. Sempre e comunque senza il riconoscimento di uno Stato palestinese.
Gli israeliani si erano mostrati sordi riguardo alla soluzione dei due Stati molto prima del 7 ottobre. Negli ultimi 10 anni il campo pacifista ebraico, rappresentato dal partito Meretz, aveva registrato un declino elettorale fino al punto di essere quasi estromesso dal gioco politico. Nel 2022 non riuscì neppure a raggiungere la soglia di sbarramento elettorale per entrare alla Knesset, il Parlamento nazionale. L’attuale governo Netanyahu ha poi sconfessato l’idea dei due Stati, accogliendo tra le sue fila membri di destra che aspirano apertamente alla piena annessione di Gaza e della Cisgiordania. Il 7 ottobre ha accelerato questa tendenza. Complice anche il crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese, centrale nei piani degli Usa per il dopoguerra di Gaza.
L’opinione pubblica israeliana sembra aver perso definitivamente quella poca fiducia rimasta nei due Stati, mentre un movimento di coloni intenzionato a dominare tutta la terra tra il Giordano e il mare è stato investito di potere e libertà d’iniziativa non direttamente ascrivibile al governo. C’è di più: la maggior parte degli israeliani oggi non sembra interessata né alla soluzione dei due Stati né a quella di un unico Stato basata sull’uguaglianza per tutti i residenti nel territorio sotto il controllo israeliano. Molti ritengono che il maxi attacco del 7 ottobre abbia confermato i loro peggiori timori nei confronti dei palestinesi, acriticamente identificati con l’agenda di Hamas. Questo doppio rifiuto apre due possibili strade:
- l’ulteriore radicamento della supremazia ebraica e controlli in stile apartheid su una popolazione non ebraica però prolifica, che presto supererà dunque in numero gli ebrei israeliani;
- il trasferimento forzato su larga scala di palestinesi e la loro cacciata dalla Striscia, come hanno apertamente chiesto alcuni ministri del governo Netanyahu.
Questa è la dura realtà politica che segna il tramonto della soluzione a due Stati: né la leadership né l’opinione pubblica di entrambe le parti sostengono un simile processo.