Hamas non cede, Israele non molla. Dopo essere stato ferito il 7 ottobre soprattutto nello status di grande potenza del Medio Oriente, lo Stato ebraico sembra accusare la fatica del conflitto con i fondamentalisti della Striscia di Gaza. Tel Aviv è schiacciata tra più incudini e qualche martello: lo sforzo militare; le velleità di controllo su tutta la porzione di terra che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano; le accuse di genocidio da parte di istituzioni multilaterali; le proteste popolari interne; l’opinione pubblica ostile in aumento nei Paesi occidentali; l’allontanamento dagli Stati arabi che avevano sottoscritto gli Accordi di Abramo; la minaccia dell’Iran.
Mentre i negoziatori statunitensi garantiscono di essere vicini a un accordo per lo scambio di ostaggi, che prevede l’ok di Israele a un cessate il fuoco, il governo Netanyahu ragiona sulle due strade che ha davanti: persistere nell’intransigenza contro i palestinesi di Gaza e Cisgiordania oppure “vincere” senza pregiudicare il futuro dello Stato ebraico. Secondo il Center for Strategic and International Studies, citato da Foreign Policy, questa seconda opzione consiste in sei mosse fondamentali.
Sicurezza e status: le difficoltà di Israele
Israele ha accusato una sconfitta tattica, ma la vittoria strategica è ancora a portata di mano. Gli Accordi di Abramo sono ancora lì e l’Arabia Saudita ha garantito di voler proseguire il processo di normalizzazione dei rapporti e il riconoscimento dello Stato ebraico. Quest’ultimo deve però recuperare l’aura di grande potenza che può difendere le monarchie arabe e del Golfo dall’Iran. Aura che è stata inevitabilmente indebolita dal disastroso attacco subìto da Hamas.
Ora Israele, pressato dagli Stati Uniti che ne vorrebbe ridimensionata l’aggressività, ha accettato di ridurre l’intensità delle operazioni militari nella Striscia di Gaza, ritirando diverse unità e sciogliendo diverse unità di riserva. Eppure i combattimenti sono lungi dalla fine, come ha ammesso lo stesso Benjamin Netanyahu: “Ci vogliono molti altri mesi per sconfiggere Hamas”. Il premier israeliano non ha tuttavia ancora delineato uno scenario per il dopoguerra di Gaza, se non la chiusura a qualunque forma di governo palestinese che coinvolga anche la più moderata Anp (Autorità nazionale palestinese). Altri ministri israeliani, tra cui il titolare della Difesa Yoav Gallant, hanno invece avanzato proposte più dettagliate, pur lasciando molte questioni ancora irrisolte.
La sfida per Israele non è affatto semplice: deve garantire la sicurezza propria e dell’intera regione, mantenere il sostegno degli Stati Uniti, porre fine all’incubo umanitario a Gaza ed evitare di ritrovarsi coinvolto in una guerra su larga scala e senza fine. Il primo passo è senza dubbio quello di sconfiggere Hamas, senza però inferire più sui civili palestinesi e commettere crimini di guerra. La vittoria militare sarebbe comunque parziale, in quanto lo sforzo di Israele dovrà protrarsi anche nella garanzia della sicurezza e nella vigilanza. Oltre all’offensiva, il resto del piano è fatto anche di tappe difensive e umanitarie.
Compromessi e ridimensionamento: i sei passi di Israele
Benjamin Netanyahu deve insomma ridimensionare gli obiettivi di guerra e scendere a compromessi sulle questioni fondamentali. Seguendo lo schema ipotizzato su Foreing Policy da Daniel Byman, ricercatore senior presso il Center for Strategic and International Studies e professore presso la School of Foreign Service della Georgetown University, e da Seth G. Jones, vicepresidente senior della Harold Brown Chair e direttore del Programma di Sicurezza internazionale presso il Center for Strategic and International Studies.
Mossa 1: sconfiggere Hamas e ridurre la presenza militare
L’esercito israeliano sta cercando di sconfiggere l’ala militare di Hamas e di raderne al suolo le infrastrutture tattiche come tunnel, depositi di munizioni e quartier generali. Secondo l’intelligence di Tel Aviv, un tale sforzo bellico richiederebbe dai sei ai nove mesi in più rispetto al previsto, ma non raggiungerà l’obiettivo estremo di annientare i fondamentalisti. Israele non sarà in grado di uccidere tutti i miliziani di Hamas e, anche se riuscisse a cancellare il 75% delle loro forze, il movimento islamista manterrebbe comunque una certa capacità militare.
Il costo di tale sforzo non è sostenibile sul lungo periodo, al netto delle insopportabili uccisioni di migliaia di civili e della condanna internazionale. La spirale di violenza, se continuata, porterà infine alla radicalizzazione delle masse arabe anche in Cisgiordania e faciliterà l’arruolamento in futuro da parte di Hamas, Jihad Islamica e dei nuovi gruppi estremisti che germineranno dalle macerie di Gaza. Nonostante l’aumento della tensione in Cisgiordania, Israele ha scelto di richiamare un gran numero delle proprie forze militari, ben conscio che la guerra in corso è già diventata la più costosa nella storia del Paese.
Una decisione che potrebbe rivelarsi però fallace. Lo Stato ebraico dovrebbe infatti passare a operazioni più limitate e mirate. Ciò ridurrebbe il numero di militari di Hamas uccisi, è vero, ma diminuirebbe anche il numero di civili uccisi e il costo economico del conflitto. Rendendo così la guerra più sostenibile dal punto di vista diplomatico e finanziario, anche sul lungo periodo.
Mossa 2: campagna militare mirata
Messa da parte l’operazione militare su vasta scala, Israele deve comunque mantenere pressione e attacchi sull’ala militare di Hamas e in particolare sui suoi capi. Conservando la consapevolezza che tale campagna non metterà fine a un gruppo come Hamas, che nutre profondi legami con la società palestinese e possiede un’ampia base dirigente. Raid costanti mineranno tuttavia la tenuta della leadership fondamentalista, creando confusione tra i ranghi e costringendo i capi militari a ridurre la comunicazione per evitare di essere scoperti. Con inevitabile caos tra le fila dei reparti operativi palestinesi nella Striscia.
La parola d’ordine è “misura”. Anche volendo “allargare” il mirino degli attacchi, Israele dovrà stare attento a non esagerare e considerare, ad esempio, le nefaste conseguenze diplomatiche nel prendere di mira i leader politici di Hamas presenti in Qatar e Turchia. L’emirato del Golfo è infatti un attore irrinunciabile nei negoziati per gli ostaggi e probabilmente lo sarà anche per quanto riguarda la ricostruzione di Gaza.
Mossa 3: difendersi bene
Il mondo intero l’ha visto: il 7 ottobre il tanto celebrato sistema difensivo israeliano ha fallito e si è sgretolato sotto i colpi di un’organizzazione terroristica. Droni, mezzi e miliziani hanno bucato la barriera di sicurezza al confine, aggirando ogni sistema. Per questo motivo per Israele è prioritario riorganizzare e rinforzare le difese, costruendo un sistema a più livelli. Secondo gli analisti, dovrebbe fare ricorso a barriere multiple che rappresenti una sorta di corsa a ostacoli mortale per i nemici.
In questo senso il confine tra Gaza e Israele potrebbe somigliare sempre più alla zona demilitarizzata lungo la frontiera tra le due Coree: tanto filo spinato, muri a prova di proiettile, torri di guardia, trincee, sensori, telecamere e mine. Tel Aviv dovrebbe anche prendere in considerazione la possibilità di consentire a più comunità israeliane vicino ai confini con il Libano e la Striscia di organizzare unità di autodifesa con maggiore potenza di fuoco, anche se ciò aumenterebbe i rischi sociali.
La sicurezza andrebbe potenziata anche lungo il confine con l’Egitto, in quell’area chiamata Philadelphi Route (in ebraico ציר פילדלפי, “tzir filadelfi”, letteralmente “Corridoio di Filadelfia”). Si tratta del nome in codice con cui le Idf israeliane indicano la zona cuscinetto lungo la frontiera meridionale. Con gli Accordi di Oslo, questa parte della striscia di Gaza è rimasta sotto il diretto controllo militare israeliano. La risposta israeliana al maxi attacco del 7 ottobre è stata lenta e Tel Aviv deve assolutamente invertire questa rotta.
Israele dovrà dunque stanziare più truppe vicino a Gaza nel caso Hamas superi nuovamente la barriera, inclusa una forza di reazione rapida potenziata che possa dispiegarsi rapidamente in caso di avvisaglie di offensiva avversaria. Una presenza visibile è necessaria sia per scoraggiare i terroristi sia per rassicurare gli israeliani che vivono nei pressi di Gaza. Lo Stato ebraico deve infine prevenire la penetrazione di Hamas attraverso i tunnel anche per quel che riguarda i traffici illeciti, in primis quello di armi.
Mossa 4: consentire più aiuti umanitari a Gaza
Dicevamo anche della necessità per Israele di migliorare la propria immagine a livello internazionale. A tale scopo lo Stato ebraico sta consentendo agli aiuti umanitari di entrare a Gaza dall’Egitto attraverso il valico di Rafah e ha anche aperto il valico di Kerem Shalom, progettato per gestire spedizioni più grandi. Ma non basta. Gli aiuti che riescono a penetrare nella Striscia e ad arrivare effettivamente alla popolazione (senza incappare in mercato nero e furti) sono davvero pochi, insufficienti a coprire le necessità dei civili. Gli sfollati rappresentano ormai l’85% dei palestinesi della Striscia e mancano acqua, cibo e medicine.
Temendo che gli aiuti venissero dirottati verso Hamas, Israele ha aspettato più del dovuto nell’elaborare un sistema per controllare le merci destinate a Gaza. I punti di ispezione sono spesso a corto di personale e le forniture necessarie non raggiungono i residenti. Le inaccettabili morti e la miseria alimentano la percezione che lo Stato ebraico voglia che il popolo di Gaza soffra, estremizzando il risentimento e la rabbia in tutto il mondo arabo. Israele deve dunque moltiplicare i suoi sforzi per consentire l’afflusso di aiuti a Gaza, consentendo alle organizzazioni umanitarie più accreditate maggiore libertà di operare, concedendo tregue più lunghe nei combattimenti. Dall’altro lato è chiaro che Hamas si impossesserà di parte del cibo, delle medicine e del carburante, ma questo è un prezzo che Israele deve pagare.
Mossa 5: coinvolgere l’Autorità nazionale palestinese
Una volta vinta la guerra, si dovrà stabilire chi governerà Gaza. Se si vuole estromettere Hamas, al momento la soluzione migliore è coinvolgere l’Autorità nazionale palestinese, che attualmente controlla parti della Cisgiordania. Un ruolo chiaro e visibile dell’Anp ridurrebbe i timori di un’occupazione israeliana o di un’annessione unilaterale della Striscia, oltre a permettere agli Stati Uniti e ai Paesi arabi “amici” di affermare che un autogoverno palestinese pacifico è possibile.
I dubbi, come al solito, non mancano. L’Anp non è infatti il migliore dei cavalli su cui puntare: è debole e preda della corruzione e il suo presidente Abu Mazen è profondamente impopolare. Dal punto di vista politico, questa soluzione rappresenterebbe un anatema per molti israeliani, soprattutto i più intransigenti (compresa ampia parte del governo Netanyahu). Il degrado di parte dell’Autorità palestinese è però anche causato dalle politiche di Israele. Lo Stato ebraico ha infatti incoraggiato il Qatar a finanziare Hamas per dividere il fronte palestinese e quindi affermare che Israele non può negoziare in modo produttivo con l’Anp. L’espansione degli insediamenti e la violenza impunita dei coloni mentre lanciavano pogrom contro i loro vicini palestinesi hanno ulteriormente minato la credibilità dell’Anp tra gli stessi palestinesi.
Affinché l’Autorità palestinese abbia successo a Gaza, è necessario un massiccio programma di reclutamento, formazione ed equipaggiamento delle forze di sicurezza dell’organizzazione. Un programma che gli Usa sta appena iniziando a sposare. La formazione potrebbe avvenire nei paesi vicini, come la Giordania e l’Egitto.
Mossa 6: evitare l’allargamento del conflitto
La guerra tra Israele e Hamas si è allargata anche ad altri fronti, tra cui Iraq, Libano e Yemen. Tel Aviv considera da tempo il gruppo militante Hezbollah con sede in Libano, alleato di Hamas e stretto partner dell’Iran, come la sua minaccia immediata più pericolosa. E fa bene: il “Partito di Dio” conta migliaia di combattenti ben addestrati e un arsenale missilistico almeno 10 volte superiore a quello di Hamas. Finora le due parti si sono impegnate in uno scontro limitato a centinaia di attacchi lungo il confine, ma senza impegnarsi in un conflitto vero. Come avviene nel Mar Rosso, con gli Houthi che attaccano le imbarcazioni che risalgono verso Suez (snodo importantissimo) e la coalizione occidentale che ha deciso di rispondere al fuoco (inclusa l’Italia).
Israele dovrebbe invece concentrarsi sulla deterrenza, rafforzando le forze al confine col Libano e conducendo attacchi limitati in risposta ai raid di Hezbollah. In questo modo dimostrerebbe la volontà di aumentare l’uso della forza se Hezbollah dovesse intensificare le operazioni, chiarendo al gruppo islamista che qualsiasi guerra sarebbe un disastro per loro. Evitando dunque l’allargamento del conflitto di Gaza.
La rivalità Israele-Iran spiegata bene: perché si è riaccesa la miccia in Medio Oriente
A quasi quattro mesi dal maxi attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre, possiamo guardare alla crisi mediorientale con un occhio più freddo e asciutto. Gli Accordi di Abramo sono la ragione primaria per la quale l’Iran ha spinto Hamas ad attaccare Israele. Hamas ha una sua agenda, ma anche la mano lunga dell’Iran anche se dovrebbero essere nemici acerrimi: arabi sunniti da un lato i palestinesi, persiani e dunque sciiti gli iraniani dall’altro (che hanno scelto la confessione sciita proprio perché anti-arabi). L’agenda iraniana ha come obiettivo la distruzione degli Accordi di Abramo, voluti dagli Usa nel 2020 e benedetti bipartisan. Tanto da Trump quanto da Biden, a significare che il presidente americano non è che la punta di un iceberg fatto di apparati e di un Congresso che decidono tutte le questioni fondamentali negli Stati Uniti.
L’agenda di Washington era invece quella di divincolare gli americani dalla gestione del Medio Oriente e lasciare il contenimento dell’Iran a Israele. Israele che è l’unica potenza nucleare del Medio Oriente e soprattutto con capacità di risposta nucleare, il che non è automatico e scontato. Al contrario, ad esempio, della pur temutissima Corea del Nord, che possiede la bomba atomica ma che se attacca con armi nucleari scompare dalla faccia della Terra con tutta la sua capacità di lancio. Israele no, perché dispone di ordigni nucleari presenti sui suoi sottomarini altrettanto nucleari (di produzione tedesca) dispiegati nel Mediterraneo orientale.
Qui sta il motivo di fondo, sempiterno potremmo azzardare, per cui l’Iran non si azzarda ad attaccare direttamente Israele. Iran che, tra l’altro, non è mai riuscita a gestire né tantomeno vincere un conflitto diretto: nel 1979 si compie la Rivoluzione Islamica di Khomeini e l’Iran inizia la sua guerra contro l’Iraq, salvandosi quasi per il rotto della cuffia nonostante mezzi e capacità di gran lunga superiori. Come potrebbe riuscire dunque a distruggere gli Accordi di Abramo? Distruggendo Israele in maniera indiretta, umiliandone la tanto celebrata capacità difensiva armando Hamas. Per le stesse ragioni, Teheran non vuole un allargamento del conflitto, che invece potrebbe fare il gioco di Israele, il quale potrebbe attaccare l’Iran prima che sia troppo tardi. È ancora una volta la storia a fornirci la spiegazione: un Paese con capacità nucleare non è mai stato attaccato in una guerra massiccia e diretta sul suo territorio.
Il ragionamento di Israele è dunque quello di colpire l’Iran prima che sia Teheran ad attaccare. Ammesso che l’Iran sia davvero a un passo dall’intervento diretto con l’atomica, come paventato dalle intelligence occidentali. Su questo punto c’è molta confusione, per non dire mistificazione: si pensa alle forze di intelligence come quasi a un’accademia delle cose militari, come a una fonte insuperabile o almeno affidabile di informazioni. È esattamente il contrario: le intelligence non danno notizie, ma le camuffano e le distorcono per l’interesse esclusivo della nazione. Ci sono forti dubbi anche sull’opportunità di Israele di attaccare l’Iran sul suo territorio, dove si è dimostrato fortissimo, anche in considerazione della netta superiorità demografica iraniana.