Lo ha detto e ridetto per mesi in campagna elettorale e lo ha ripetuto come prima cosa anche dopo la vittoria alle elezioni presidenziali americane: Donald Trump è pronto a “fermare tutte le guerre”. E in sole 24 ore. Propaganda e delirio di onnipotenza, certo, ma che nascondono una visione chiara dell’approccio statunitense ai conflitti aperti nel mondo.
Il disegno più chiaro è sulla guerra in Ucraina. Ovviamente si tratta di una visione distante da quella dell’amministrazione Biden, la quale stabiliva un supporto di fatto incrollabile al Paese invaso. La ricetta di Trump prevede invece una chiara apertura alla Russia e un disimpegno materiale degli Stati Uniti, che ricadrà sulle spalle degli Stati europei.
Trump vuole l’impero senza impegno
Il mantra di Donald Trump è chiaro: “Vogliamo un esercito forte e potente, e idealmente di non doverlo usare”. Gli Stati Uniti sono tecnicamente un impero, e gli imperi fanno la guerra. Non solo e non più per sopravvivere, ma perché non sanno fare altro e perché sono ormai sovraesposti su molteplici fronti. Anche se vogliono disimpegnarsi.
Il trionfo di Trump su Kamala Harris ha evidenziato la predominanza di un’America stanca di accollarsi la salvaguardia e le guerre degli altri popoli. Che chiede di mantenere l’impero, inestinguibile per semplice schiocco di dita e men che meno da un presidente, ma al contempo di ridurre l’impegno globale per concentrarsi su economia e immigrazione interne. In altre parole: vogliamo la gloria, ma non vogliamo più morire per mantenerla. D’altronde, abbiamo già fatto tanto.
La strategia di Trump per Ucraina e Russia
“Se fossi io alla Casa Bianca, farei cessare la guerra in Ucraina in 24 ore“. Quante volte l’ha ripetuto, Trump. Ora ha l’occasione di dare seguito alle parole. Il nostro dovere è però depurare la realtà dalla propaganda, per comprendere cosa può effettivamente succedere. Gli Usa non possono abbandonare l’Ucraina e premiare la Russia, perché la prima è la pedina fondamentale contro la seconda, rivale strategico dell’egemone globale. La prima è stata scelta come teatro di scontro tra blocco Nato e una Russia che ormai da anni ha spostato il suo sguardo e le sue risorse a Est, avvicinandosi pericolosamente a una Cina con velleità di dominio eurasiatico. La Nato stessa è nata e tiene unito il variegato fronte europeo basandosi sulla paura della minaccia russa.
Adesso il tycoon si trova insomma nella scomoda posizione di dover chiarire come intende realmente procedere sulla questione. Trump non ha infatti mai delineato nello specifico i contenuti e le modalità del suo piano per portare russi e ucraini (seduti dietro agli americani) al tavolo delle trattative. “Non posso darvi quei piani perché se ve li do, non sarò in grado di usarli”, aveva dichiarato il repubblicano durante la campagna elettorale. Un’inedita proposta dell’ufficio di Trump, diffusa da persone vicine al presidente eletto, prevede tre punti fondamentali:
- La rinuncia da parte di Kiev a entrare nella Nato per almeno 20 anni. In cambio, gli Usa continuerebbero sulla carta a fornire armi all’Ucraina in modo da scoraggiare un futuro attacco russo, appaltando in realtà lo sforzo industriale e bellico ai Paesi Ue. L’Ucraina otterrebbe tuttavia una qualche affiliazione all’Unione europea, che dovrà dunque farsene carico politico, economico e militare.
- Il congelamento della linea del fronte allo stato dei combattimenti, cioè il riconoscimento delle conquiste russe e la probabile concessione delle regioni ucraine annesse unilateralmente da Mosca, e la certificazione di una zona demilitarizzata sul modello coreano. Non è ancora chiaro chi pattuglierebbe la linea, ma un consigliere vicino a Trump ha affermato che la forza di mantenimento della pace non coinvolgerebbe truppe americane, né proverrebbe da un organismo internazionale finanziato dagli Usa, come le Nazioni Unite.
- Il blocco delle forniture di armi all’Ucraina finché il Paese non accetti di intavolare negoziati di pace con la Russia. Si tratta di una proposta avanzata a inizio 2024 da Keith Kellogg e Fred Fleitz, entrambi funzionari della prima amministrazione Trump. In questo caso Kiev potrebbe ancora provare a riconquistare il territorio perduto, ma soltanto tramite colloqui diplomatici.
Tali punti sono frutto in parte anche della vicinanza fra Trump e Putin, al quale il tycoon invidia la spiccata verticale del potere. Non è chiaro se e quali tattiche perseguirà la nuova amministrazione, che dovrà comunque allinearsi con la linea degli apparati e del Congresso statunitensi. In ogni caso, qualsiasi piano ucraino dovrà fare i conti con diverse insidie. Il Cremlino non sembra innanzitutto disposto ad accettare che gli Usa continuino ad armare l’Ucraina anche dopo il congelamento del conflitto. Senza dimenticare il gigantesco calderone ribollente delle sanzioni ai danni di Mosca ancora attive e i progetti di allargamento della Nato che, nella visione russa, minacciano un’altra zona strategica come il Caucaso.
La strategia di Trump per Israele e Medio Oriente
Anche la strategia di Trump nei confronti del Medio Oriente è chiara. A luglio, in piena corsa elettorale, il magnate newyorkese chiamò Benjamin Netanyahu per chiedergli retoricamente di “cessare il conflitto entro la data del suo insediamento” alla Casa Bianca. Altro delirio di onnipotenza, ma bisogna ammettere che sulle elezioni ha avuto ragione. Peccato però che la frase “le uccisioni a Gaza dovranno cessare presto” fu accompagnata da “cerca di vincere questa guerra rapidamente”. Tradotto: Israele faccia tutto quello che deve fare nella Striscia e in Libano. Risultato: oltre 120mila vittime a Gaza (altro che le sole 43mila che si leggono in giro) e più di tremila in Libano.
La politica americana per il Medio Oriente potrebbe ripercorrere dunque i sentieri già tracciati da Jared Kushner, genero di Trump e padre degli Accordi di Abramo, che si è già mostrato molto attaccato al “potenziale immobiliare del lungomare di Gaza”. Con il potenziale supporto dell’ex ambasciatore David Friedman, autore di un libro assieme all’ex Segretario di Stato Mike Pompeo dal titolo inequivocabile: “One Jewish State: The Last, Best Hope to Resolve the Israeli-Palestinian Conflict” (“Un unico Stato ebraico, l’ultima e migliore speranza per risolvere il conflitto israelo-palestinese”). L’intenzione di Trump sarebbe inoltre riprendere la politica di massima pressione sull’Iran, autentica minaccia egemonia in Medio Oriente e membro del cosiddetto Asse del Male con Russia e Cina.
Durante il suo primo mandato, Trump riconobbe Gerusalemme come legittima capitale di Israele al punto da trasferirvi l’ambasciata americana. La propensione del tycoon nei confronti dell’ultra-destra imperante nel governo Netanyahu si spingeva anche oltre. Washington infatti:
- tagliò i fondi all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente;
- si ritirò dall’accordo sul nucleare (Jcpoa) stipulato con l’Iran e reintrodusse sanzioni secondarie che erano state sospese nel gennaio 2016;
- diede mandato di uccidere il comandante delle Forza Quds dei pasdaran iraniani Qassem Soleimani, assassinato da un drone statunitense il 3 gennaio 2020;
- riconobbe la sovranità israeliana sulle Alture del Golan occupate e contese con la Siria;
- promosse gli Accordi di Abramo e la normalizzazione diplomatica fra Israele e monarchie arabe senza prevedere alcuna concessione ai palestinesi.