La caduta del regime di Bashar al-Assad ha confermato l’importanza cruciale della Siria negli equilibri del Medio Oriente. E, di conseguenza, nel gioco di forze tra le potenze mondiali. La presa di Damasco e del potere da parte dei cosiddetti ribelli compromette i piani di Iran e Russia e quasi inverte le posture di Stati Uniti e Turchia, coi primi presi a destreggiarsi da disimpegno e mantenimento dell’egemonia e Ankara salita in cattedra come attore con cui trattare.
Come la Siria cambia il mondo
Lo avevamo già visto con l’Iraq vent’anni fa: quando una minoranza confessionale governa la maggioranza di segno opposto, ci sono spinte straniere che portano al cambio di regime e al conseguente caos istituzionale. In questo la minoranza alauita al potere, incarnata nella famiglia Assad e alleata dell’altra minoranza cristiana, ha tenuto sotto il tallone la maggioranza arabo-sunnita e la componente curda per 50 anni. Poi l’esplosione ribelle, per tutti inaspettata. Innanzitutto per la già arcinota debolezza militare del regime siriano, che dopo la Primavera Araba del 2011 ha appaltato la sicurezza a potenze straniere come Russia e Iran. E poi proprio per l’impreparazione e la stanchezza di queste due potenze straniere, che facevano della Siria un prisma indispensabile attraverso il quale irradiare la propria influenza verso ovest e il Mediterraneo.
L’Iran ha sempre utilizzato la Siria come autostrada logistica per rifornire le milizie sciite che combattono Israele, in primis Hezbollah. Ma ora il suo grande bluff è stato svelato e Teheran non può più nascondere la sua recondita debolezza. Impegnata a tenere a bada gravi dissidi interni, soprattutto per via di uno scontro generazionale in corso ai vertici e all’interno degli apparati, la Repubblica Islamica si sta affannando con scarso successo a dotarsi della bomba atomica che da sola ribalterebbe davvero ogni equilibrio di forza del Medio Oriente. Al momento, però, l’Iran è dovuto scendere a compromessi con chiunque, inclusa la Russia, un altro impero (dunque nemico per definizione) interessato ad accelerare la crisi del sistema a guida americana.
Anche per la Russia la Siria era un tassello fondamentale della sua proiezione d’influenza oltre i confini nazionali. Mai detentrice di colonie al di fuori del territorio patrio, Mosca ha colto sapientemente l’occasione delle Primavere Arabe per installarsi nel Paese mediorientale ed ergersi a grande protettore del regime di Assad. Come dimostra, del resto, la fuga a Mosca del deposto dittatore. Ma la Russia, lo sappiamo fin troppo bene, ha altro a cui pensare: in primis la guerra in Ucraina, ma anche una galoppante crisi demografica che si tenta di stemperare il più possibile a livello mediatico. Il terzo attore, stavolta sub-statale, che sarà colpito a fondo dalla crisi siriana è Hezbollah, che da Damasco riceveva aiuti militari e finanziari per proseguire la sua guerra contro Israele.
Perché ora? Il ruolo della Turchia
Come per Israele e Hamas il 7 ottobre 2023 e, ancora prima, per l’Ucraina e la Russia il 24 febbraio 2022, si è riproposta la fatidica domanda: perché proprio ora? Per rispondere dobbiamo chiamare in causa un’altra potenza, ambigua ed equilibrista, finora sospesa tra appartenenza al blocco Nato e velleità neo-imperiali: la Turchia. Il governo di Recep Tayyip Erdogan sostiene i ribelli siriani, soprattutto definite dai media di mezzo mondo “formazioni jihadiste”. Si tratta tuttavia di un fronte estremamente variegato al suo interno e che, va senza dire, non è formato da amici. Come nello scoppio delle altre due guerre del nostro tempo, anche in Siria si è trattato di una scommessa vinta: il nemico è debole ed è il momento giusto per colpirlo. Così Ankara ha manovrato nell’ombra e dato impulso all’avanzata degli insorti. Secondo Khaled Khoja, ex presidente della Coalizione nazionale delle forze rivoluzionarie e di opposizione siriane, ritiene che la Turchia abbia svolto un ruolo fondamentale fin dall’inizio dell’operazione.
Abu Mohammad al-Jolani, l’uomo forte dei ribelli presente sui media di tutto il mondo, è stato favorito e pompato da Erdogan. Con la parallela collaborazione della Russia per la creazione di una nuova Siria. Un capolavoro diplomatico e militare da parte di Ankara. Molte iniziative annunciate dal leader siriano, come l’istituzione di un governo di transizione e la promozione della pace e della riconciliazione nazionale, rispecchiano infatti concetti che l’opposizione anti-Assad aveva discusso per anni nei workshop a cui avevano partecipato anche funzionari russi. Per anni la Turchia ha lavorato per moderare Hts (Hay’at Tahrir al-Sham o, più comunemente, Tahrir al-Sham), sfruttando la sua influenza per tenere a freno il gruppo. Gli osservatori notano che la linea dura di Jolani si è gradualmente ammorbidita dall’Accordo di Astana del 2017, quando le forze turche sono entrate per la prima volta a Idlib per imporre un cessate il fuoco.
Ora però viene il difficile. Oltre a mantenere l’ascendente sul Paese e contrastare la manie di controllo degli Usa, dopo la caduta di Assad la Turchia dovrà contribuire a ristabilire l’ordine pubblico interno e a formare un governo di transizione che possa garantire il ritorno dei rifugiati. Fermo restando che il governo Erdogan ha già raggiunto due obiettivi che inseguiva da molto tempo:
- allungare la mano turca al di là delle zone controllate dai suoi militari, giungendo all’ambita fascia di confine;
- il ritiro delle forze curde siriane legate al Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan col quale è in scontro da decenni.
Gli strateghi turchi hanno già creato un modello di governance nella Siria settentrionale in seguito alle sue operazioni contro l’Isis e le forze curde. Questo modello comprende un governo ad interim, un esercito nazionale siriano, una governance locale basata sulle assemblee e un’economia locale integrata. Dopo la caduta di Assad, tale modello dovrebbe incarnarsi in un esecutivo di transizione, con un ruolo diretto da parte delle istituzioni statali turche. È infatti interesse primario per Ankara supportare il processo verso un nuovo assetto istituzionale in Siria, fornendo capacità tecnica e affrontando esigenze critiche. Legando in questo modo a sé il Paese nel prossimo futuro e, di conseguenza, imponendo alle altre potenze di trattare direttamente con la controparte turca.
Cosa succederà adesso in Siria? Il ruolo degli Usa
Come abbiamo accennato, con ogni probabilità nasceranno dissidi e scontri all’interno del fronte ribelle che ha preso il controllo della capitale e delle principali città della Siria. Tuttavia ciò che abbiamo capito degli sconvolgimenti in Siria, più di ogni altro insegnamento, è che dietro ogni avvenimento c’è l’azione di attori esterni. Abbiamo parlato della Turchia, ora tocca agli Stati Uniti. Affaticati ma pur sempre egemoni globali, gli Usa non sono stati direttamente coinvolti nella cacciata di Assad, ma hanno un interesse enorme in cosa accadrà dopo il cambio di regime. La svolta siriana apre un ventaglio di possibilità impensabili fino all’altroieri. E cioè una Siria più stabile che:
- si libera dalla dipendenza iraniana e russa;
- non esporta terrorism;
- lascia che i suoi rifugiati tornino a casa;
- smette di essere un Paese di transito per gli aiuti a Hezbollah contro Israele;
- sottoscrive agli Accordi di Abramo e normalizza le relazioni con Israele.
Tutte queste sono ovviamente pure possibilità, che non si verificheranno mai tutte insieme senza aiuto e supporto dall’esterno. Cioè che è certo e che la pianificazione post-bellica della Siria deve procedere a tutta velocità. Il primo passo è la cura della ferita umanitaria. L’infrastruttura di base esiste per fornire aiuti immediati al popolo siriano, ma ha bisogno di finanziamenti e sostegno politico da parte degli Stati Uniti, con la collaborazione dei Paesi europei e mediorientali. La domanda immediata per l’amministrazione Biden è se consentire all’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) e ad altre agenzie internazionali di inviare aiuti urgenti nel Paese mediorientale. E mentre gli Stati Uniti intrattengono legami limitati con i ribelli dell’Hts, che Washington ha in teoria designato come organizzazione terroristica, Tahrir al-Sham non è l’unico gruppo dell’opposizione siriana che ora controlla Damasco. Chi è dominante tra queste formazioni dipende da chi ottiene più aiuti esterni o, perlomeno, di chi ne riceve di più forti. Nonostante il sostegno della Turchia sia palesemente volto al solo perseguimento degli interessi turchi, la strategia di Ankara nella Siria occidentale è funzionale anche alle esigenze di Washington. Gli Usa possono inoltre collaborare strettamente con Giordania e Israele.
Il prossimo presidente Donald Trump avrà molte e contrastanti voci alle quali prestare orecchio. L’ala isolazionista sosterrà che altri governi dovrebbero prendere l’iniziativa nella Siria del dopoguerra. Altre voci ricorderanno tuttavia al tycoon che indebolire l’influenza iraniana, sostenere la sicurezza di Israele e la tregua in Libano rappresentano una delle più grandi vittorie che il nuovo governo federale avrebbe mai potuto sperare di ottenere. La pace in Medio Oriente è una delle più grandi ambizioni propagandistiche di Trump e, per raggiungerla anche solo per poco tempo, sarà disposto a fare della Siria un esempio.
Il pragmatismo che forze siriane diverse tra loro hanno messo in campo per rovesciare Assad potrebbe però presto sgretolarsi. Le forze combattenti sembrano potersi coordinare ancora per preservare una struttura di governance temporanea, ma poi le differenze verranno fuori. Probabilmente anche in maniera violenta. I due timori più grandi dei siriani sono ora lo scoppio di una nuova guerra civile e l’invasione di un altro pezzo di territorio nazionale da parte di Israele, dopo le contese Alture del Golan. Il dibattito interno alla Siria è fervente. Staremo a vedere in cosa si tradurrà.