Israele allarga la guerra, dopo Gaza ora punta alla Cisgiordania

L'esercito israeliano lancia una vasta operazione in Cisgiordania, sulla carta contro terroristi islamici. Nei fatti, lo Stato ebraico punta ad annettere l'altro grande territorio abitato da palestinesi. E attacca anche in Siria

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La notizia non ha sorpreso nessun analista che si rispetti: Israele ha lanciato una vasta operazione in Cisgiordania. Operazione definita antiterrorismo per propaganda, in realtà azione militare volta a perseguire il grande obiettivo dello Stato ebraico: controllare tutta la fascia di territorio mediorientale che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano.

Per riuscirci, gli israeliani devono piegare anche l’altro grande territorio abitato da palestinesi oltre alla Striscia. Ecco perché negli anni, con una decisa accelerazione negli ultimi due, ha inviato coloni da quelle parti. Con inevitabile aumento di scontri, combattimenti e morti, come se non ne avessimo visti già abbastanza.

La vasta operazione di Israele in Cisgiordania

Nella notte tra 27 e 28 agosto le Idf israeliane hanno lanciato una vasta operazione in Cisgiordania, in particolare nell’area di Tulkarem. L’intervento militare, finora evitato in tali dimensioni, è stato giustificato con la presenza di una rete terroristica che ha pianificato e diretto il fallito attentato della scorsa settimana a Tel Aviv. I media israeliani hanno dato anche un volto all’attentatore, identificato da Hamas come Jaafar Mona, originario di Nablus, rimasto ucciso dall’ordigno esploso mentre si dirigeva verso una sinagoga dove era in corso la preghiera della sera. I fondamentalisti della Striscia e Jihad Islamico avevano già rivendicato la responsabilità dell’attacco del 18 agosto.

Secondo gli analisti, l’operazione dello Stato ebraico nella Cisgiordania settentrionale dovrebbe durare diversi giorni. Oltre che nell’area di Tulkarem, le Idf si sono spinte anche a Jenin e nel campo di Fara, vicino a Tubas. Diversi palestinesi sono stati uccisi, catturati, arrestati. A Jenin l’esercito ebraico è intervenuto con molti uomini e ha fatto irruzione nell’ospedale Ibn Sinai, dopodiché ha imposto il coprifuoco impedendo ai cittadini di uscire dalle proprie case, poi perquisite. Gli abitanti sono stati poi interrogati dai soldati.

Il controllo dei centri sanitari e strategici fa parte della tattica bellica di Tel Aviv, per fiaccare la resistenza palestinese. Nei video pubblicati dalle Idf si vedono esplosivi sepolti nel terreno, sotto le strade e nel campo profughi di Noor al-Shams, mentre vengono rimossi dai mezzi dell’esercito. I soldati di Tel Aviv hanno poi riferito di aver eliminato diversi terroristi e di aver confiscato grandi quantità di armi tra cui M-16 e munizioni.

Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha dichiarato che lo Stato ebraico dovrebbe prendere in considerazione “l’evacuazione temporanea dei civili palestinesi” della Cisgiordania mentre è in corso l’operazione “contro l’infrastruttura islamico-iraniana”. Secondo Tel Aviv, l’Iran “sta cercando di creare un fronte orientale contro Israele in Cisgiordania, simile agli scontri di Gaza e Libano, finanziando e armando terroristi e contrabbandando armi avanzate dalla Giordania. Dobbiamo affrontare la minaccia esattamente come affrontiamo l’infrastruttura terroristica a Gaza, inclusa l’evacuazione temporanea dei civili palestinesi e qualsiasi altro passo necessario. Questa è una guerra in tutti i sensi”.

La reazione dei palestinesi

L’escalation della guerra israeliana in Cisgiordania, “oltre al genocidio nella Striscia di Gaza, porterà a risultati terribili e pericolosi”. Le parole del portavoce ufficiale dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Nabil Abu Rudeineh, sono però destinate a riecheggiare nel vuoto. Lo Stato ebraico è determinato a moltiplicare i fronti del conflitto senza però sfociare nell’escalation definitiva, come ne aveva già dato dimostrazione settimane fa con un attacco più o meno simultaneo contro Hamas, Hezbollah e Houthi. Visto che la situazione rischia di precipitare rapidamente, il presidente palestinese Abu Mazen ha interrotto la sua visita ufficiale in Arabia Saudita ed è tornato in patria.

Le fazioni palestinesi impiantate nei territori invasi non sono comunque rimaste a guardare. L’ala armata di Fatah, di fatto rivale politico di Hamas, ha preso parte ai combattimenti di strada, lanciando bombe contro le truppe israeliane. Anche il gruppo terroristico del Jihad Islamico, che come Hamas si ritiene abbia rafforzato la sua posizione nella Cisgiordania settentrionale negli ultimi anni, ha rilasciato una dichiarazione in cui denuncia una “guerra aperta” da parte dello Stato ebraico.

Il rischio insomma è che quest’ultimo si impantani in un altro lungo scontro di logoramento in cui altri migliaia di civili perderanno tragicamente la vita. Il fronte palestinese sembra compattarsi, mentre l’Onu lancia l’ennesimo vuoto monito a Israele. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha condannato la “risposta sempre più militare” delle forze di sicurezza israeliane nella Cisgiordania occupata, secondo modalità “che violano il diritto internazionale e rischiano di infiammare ulteriormente una situazione già esplosiva”.

Il piano di Israele per la Cisgiordania

Mentre i mediatori di Usa, Qatar ed Egitto si professano al lavoro per gli ormai non più credibili negoziati per una tregua a Gaza, il governo Netanyahu va dritto per la sua strada, che non prevede la condizione essenziale di un cessate il fuoco. E ragiona sulle due strade che ha davanti: persistere nell’intransigenza contro i palestinesi di Gaza e Cisgiordania oppure “vincere” senza pregiudicare il futuro dello Stato ebraico. Secondo il Center for Strategic and International Studies, questa seconda opzione consiste in sei mosse fondamentali. Ma lo Stato ebraico sembra aver deciso di imboccare la prima via, nella convinzione che l’Iran e i suoi satelliti della Mezzaluna Sciita non siano pronti all’attacco diretto e allo scontro totale.

La via dell’intransigenza è comunque molto rischiosa per Israele, che non riuscirà a raggiungere il suo obiettivo estremo di annientare tutti i fondamentalisti. Tel Aviv non sarà dunque in grado di uccidere tutti i miliziani di Hamas e, anche se riuscisse a cancellare il 75% delle loro forze, il movimento islamista manterrebbe comunque una certa capacità militare. Il costo di tale sforzo non è sostenibile sul lungo periodo, al netto delle insopportabili uccisioni di migliaia di civili e della condanna internazionale.

La spirale di violenza, se continuata, porterà alla radicalizzazione delle masse arabe anche in Cisgiordania e faciliterà l’arruolamento in futuro da parte di Hamas, Jihad Islamico e dei nuovi gruppi estremisti che germineranno dalle macerie di Gaza. Nonostante l’aumento della tensione in Cisgiordania, negli scorsi mesi Israele aveva scelto di richiamare un gran numero delle proprie forze militari, ben conscio che la guerra in corso è già diventata la più costosa nella storia del Paese.

Una volta finita la guerra, si dovrà stabilire chi governerà Gaza. Se Israele vuole estromettere Hamas, al momento la soluzione migliore è coinvolgere l’Autorità Nazionale Palestinese, che attualmente controlla parti della Cisgiordania. Un ruolo chiaro e visibile dell’Anp ridurrebbe i timori di un’occupazione israeliana o di un’annessione unilaterale della Striscia, oltre a permettere agli Stati Uniti e ai Paesi arabi “amici” di affermare che un autogoverno palestinese pacifico è possibile.

Ma lo è solo se Israele riuscirà a tornare “Grande Israele”, controllando tutta la fascia di terra che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano. Inclusa la Cisgiordania, dunque, dicendo così definitivamente addio alla soluzione dei due Stati. Come ha ampiamente dimostrato la decisione dell’attuale governo Netanyahu di accogliere tra le sue fila membri di destra che aspirano apertamente alla piena annessione dei territori abitati da palestinesi. Il 7 ottobre ha accelerato questa tendenza. Complice anche il crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese, centrale nei piani degli Usa per il dopoguerra di Gaza.

Israele attacca anche in Siria

Ulteriore indizio della tattica multifronte israeliana è il parallelo attacco sferrato in Siria utilizzando droni per uccidere membri di Hezbollah e Jihad Islamico. Secondo le Idf, il raid sul lato siriano dell’autostrada Beirut-Damasco, vicino al confine tra Libano e Siria, ha provocato la morte di Firas Qassem. Quest’ultimo, secondo il Mossad, sarebbe stato incaricato di elaborare piani operativi per l’organizzazione terroristica in Siria e Libano e “ha avuto un ruolo centrale nel reclutamento di terroristi palestinesi nell’organizzazione Hezbollah, allo scopo di portare a termine operazioni terroristiche dal Libano contro lo Stato di Israele”.

Altri due membri del Jihad palestinese sono rimasti uccisi nell’operazione, insieme al membro di Hezbollah Muhammad Taha. I quattro stavano guidando dalla Siria al Libano per svolgere operazioni per conto del “Partito di dio”.