Il taglio delle pensioni del Governo si farà, la perequazione è costituzionale

La Consulta conferma la sforbiciata agli assegni d’oro e d’argento contenuto nella Legge di Bilancio 2023: il taglio non ha natura tributaria

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

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La cosiddetta mancata rivalutazione delle pensioni più elevate non costituisce una tassa e, di conseguenza, non viola i principi costituzionali di eguaglianza tributaria, ragionevolezza e temporaneità. A stabilirlo è stata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 167/2025, depositata il 13 novembre.

Si tratta del secondo pronunciamento solo quest’anno con cui la Consulta dichiara legittimo il meccanismo, in vigore nel biennio 2023/2024, che ha ridotto la perequazione per le pensioni di importo superiore a quattro volte il minimo Inps (pari a 2.101 euro nel 2023).

Il taglio per contrastare l’inflazione

Con l’impennata dell’inflazione, nel 2023 il Governo modificò il sistema di indicizzazione, concentrando gli aumenti pieni (100%) sulle pensioni più basse (fino a 4 volte il minimo).

Per gli importi più alti, la rivalutazione fu ridotta in modo scalare: per le pensioni oltre 10 volte il minimo, ad esempio, gli aumenti furono solo del 32% nel 2023 e del 22% nel 2024, contro un tasso ordinario che per le pensioni oltre le 6 volte il minimo è normalmente del 75% (come sarà per il 2026).

Questi interventi, che hanno generato un risparmio stimato di circa 37 miliardi di euro, hanno spinto alcuni pensionati a fare ricorso, portando la questione all’esame della Corte Costituzionale.

Le motivazioni della Corte

La Consulta, chiamata a esprimersi su dubbi di legittimità sollevati dalla Corte dei Conti, ha respinto i ricorsi. Secondo loro, la misura

non incide sull’importo della pensione percepita, la quale è stata comunque incrementata, sebbene in percentuale più bassa.

Poiché non si tratta di una tassa finalizzata a finanziare spese pubbliche, ma di un risparmio sulla spesa pensionistica, non si applicano i principi di eguaglianza tributaria.

Inoltre, la scelta di differenziare il trattamento in base all’importo della pensione è considerata ragionevole, poiché le pensioni più elevate hanno una

maggiore resistenza all’erosione dell’inflazione.

La Corte ribadisce che si è trattato di un intervento una tantum e di natura eccezionale, giustificato dalla particolare congiuntura economica del periodo.

Dunque il “taglio delle pensioni” è costituzionale.

Nessun rimborso in vista per i pensionati

La sentenza chiude definitivamente la porta a qualsiasi rimborso per i cittadini interessati dai tagli del 2023 e 2024. Dal 2025, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni è tornato alla normalità.

Tuttavia, la Corte ha colto l’occasione per rivolgere un monito al legislatore, invitandolo a:

  • valutare con attenzione gli effetti di simili misure prima di intervenire nuovamente sull’indicizzazione;
  • modificare il meccanismo ordinario di rivalutazione con estrema prudenza, per non destabilizzare le abitudini di spesa delle famiglie;
  • adottare un approccio specifico per i pensionati del sistema contributivo, dove esiste un legame più diretto tra contributi versati e pensione erogata.

Nessun rimborso in vista, dunque, per i pensionati che si sono visti tagliare l’importo della pensione nel 2023 e nel 2024. Dal 2025, come detto, il meccanismo di rivalutazione è tornato quello ordinario e così sarà anche per il 2026.

Per il prossimo anno, è confermato il ritorno al meccanismo ordinario a tre fasce:

  • 100% per le pensioni fino a 4 volte il minimo;
  • 90% per la fascia tra 4 e 5 volte il minimo;
  • 75% per gli importi superiori a 6 volte il minimo.

Secondo le prime stime, l’aumento per il 2026 dovrebbe essere compreso tra l’1,4% e l’1,7%.