Ciò che fai nella vita privata può costarti il posto di lavoro: la sentenza

Licenziamento e vita privata: la Cassazione indica quando i comportamenti extra-lavorativi incidono sul rapporto di lavoro

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Una fresca pronuncia della Corte di Cassazione affronta un tema di forte attualità e rilevanza sociale: il rapporto tra vita privata del lavoratore, reati e licenziamento per giusta causa. In particolare, i giudici di piazza Cavour hanno stabilito in quali casi pratici una condotta non lavorativa, ovvero avvenuta fuori dall’ufficio e dall’esercizio delle mansioni, può incidere sul legame fiduciario tanto da giustificare l’espulsione.

Vediamo insieme, in sintesi, la sentenza n. 32952/2025 della Suprema Corte, perché offre indicazioni valide per la generalità dei rapporti di lavoro dipendente.

Licenziato dopo la condanna per stalking e lesioni: il caso

Il dipendente coinvolto era un operatore ecologico, licenziato per giusta causa alcuni anni fa dalla società datrice di lavoro.

La ragione stava nella condanna definitiva alla pena di 2 anni, 6 mesi e 6 giorni di reclusione per i reati di stalking, lesioni personali aggravate e danneggiamento. La vittima principale di questi gesti era l’ex coniuge.

Dalla massima sanzione disciplinare nasceva un secondo processo presso il giudice del lavoro. Infatti, l’incaricato di pubblico servizio impugnava il licenziamento.

In estrema sintesi, la magistratura d’appello riformava la sentenza di primo grado e disponeva la reintegra del lavoratore.

Il licenziamento era valutato illegittimo e, come previsto dalla legge in questi casi, la società datrice veniva condannata al risarcimento del danno, quantificato in 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

I reati, per i giudici d’appello, non potevano influire a livello disciplinare perché:

  • erano stati compiuti fuori dal luogo di lavoro;
  • non avevano alcun collegamento con le mansioni svolte;
  • non avevano arrecato un danno diretto all’immagine o alla reputazione dell’azienda;
  • riguardavano la sola sfera personale e familiare del dipendente.

Non solo. La corte territoriale riteneva che il contratto collettivo di riferimento consentisse l’espulsione per condanna penale solo con pene non inferiori a tre anni, soglia non raggiunta in questo caso.

Lo stesso Ccnl servizi ambientali prevedeva l’espulsione per gravi atti lesivi della dignità personale, ma la clausola contrattuale veniva valutata applicabile ai soli atti compiuti nello svolgimento delle mansioni e durante l’orario lavorativo.

Il ricorso del datore di lavoro

L’azienda operante nei servizi ambientali aveva fatto ricorso contro la sentenza d’appello. Chiedeva alla Cassazione di accertare alcuni errori tecnico-giuridici, a suo dire compiuti dalla corte territoriale.

In particolare, i giudici non avrebbero applicato correttamente gli articoli del Codice Civile riguardanti gli obblighi di fedeltà, lealtà, buona fede e rapporto di fiducia.

Secondo il datore, l’errore era ancora più grave considerata la gravità e la pluralità delle condotte violente, poste in essere da un dipendente con compiti a contatto con l’utenza.

Inoltre, il giudice territoriale avrebbe errato nell’interpretare il Ccnl servizi ambientali, perché il suo testo non conterrebbe, in tema di conseguenze disciplinari per atti violenti, alcun riferimento testuale al luogo di lavoro.

Per la Cassazione il licenziamento è corretto: la sentenza

Con la sentenza n. 32952/2025 la Corte di Cassazione ha dato ragione all’azienda operante nei servizi ambientali.

Ha infatti accolto i citati motivi di ricorso, annullando la sentenza d’appello e rinviando la causa alla corte d’appello, che, in diversa composizione, dovrà emettere una nuova decisione, attenendosi ai principi di diritto evidenziati dalla Cassazione e valutando la tutela applicabile e le spese di giudizio.

In sintesi, anche la condotta fuori dal lavoro può creare notevoli problemi disciplinari, perché:

Il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l’irrogazione della sanzione espulsiva (Cass. n. 267 del 2024; n. 28368 del 2021; n. 16268 del 2015).

Il dipendente deve, quindi, stare attento a come si comporta anche fuori dall’ufficio. Se nella vita privata compie gravi gesti con conseguenze penali, potrebbe pagare perdendo il posto di lavoro.

Licenziamento per giusta causa valido per le condanne

Non solo. La giusta causa è un concetto definito anzitutto dalla legge, non dal contratto collettivo.

Quindi:

  • le ipotesi di licenziamento previste nei contratti collettivi hanno solamente valore esemplificativo e non vincolante;
  • il giudice è libero di confermare l’espulsione per violazione dei principi civilistici sul rapporto di lavoro.

Per la Cassazione, il giudice d’appello ha sbagliato a limitare la portata della regola del Ccnl sul licenziamento per giusta causa.

Infatti, il contratto non circoscrive le conseguenze ai soli atti gravi e lesivi della dignità personale, commessi nel luogo di lavoro. Il suo testo, in realtà, non lo dice espressamente.

Anzi, mirando il Ccnl alla piena tutela della dignità della persona, valore di rilievo costituzionale, il licenziamento si palesava come una giusta e naturale conseguenza di gesti violenti, abituali e intimidatori.

E lo era in particolare, scrive la Corte:

specie ove le mansioni del lavoratore comportino costante contatto col pubblico ed esigano rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo nel far fronte alle loro esigenze.

Che cosa cambia per i lavoratori a rischio licenziamento

La sentenza n. 32952/2025 della Cassazione ha a che fare con temi delicati come lo stalking, che recentemente abbiamo già visto in chiave di stalking occupazionale.

Ma, soprattutto, conferma un principio fondamentale del diritto del lavoro: la vita privata del dipendente non è sempre estranea al rapporto con l’azienda.

Se un comportamento in casa, all’aperto, in spazi dedicati ad attività ricreative e in ogni altro luogo è grave, lede valori fondamentali come la dignità della persona e incide sull’affidabilità del lavoratore, rispetto alle mansioni svolte, può giustificare il licenziamento in tronco.

Il collegamento diretto con il luogo di lavoro non è necessario, e lo abbiamo già visto in un altro recente caso con un altro lavoratore che era uno stalker nella vita privata.

Certamente, quello della Corte di Cassazione è un orientamento che rafforza la tutela dei valori costituzionali e impone una valutazione concreta e non “formalistica” del rapporto di lavoro.

Non conta tanto il dato testuale di una certa norma, ma gli effetti concreti di un comportamento e il giudizio secondo la coscienza sociale.