Stipendi su in tutta Europa ma in Italia sono fermi da 30 anni, la situazione

Un rapporto dell'Inapp certifica che negli ultimi 30 anni le retribuzioni sono rimaste al palo

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Gli stipendi degli italiani si trovano in una stasi, registrando un incremento del solo 1% negli ultimi 30 anni, dal 1991 al 2022, in netto contrasto con la media del 32,5% nell’area Ocse. Questo dato indica un fallimento della contrattazione collettiva e è associato a una crescita della produttività superiore rispetto agli aumenti salariali durante lo stesso periodo. Il risultato evidente è una costante diminuzione della quota dei salari rispetto al PIL, a favore dell’incremento del peso dei profitti, che ora rappresentano il 60% rispetto al 40% dei salari.

Questi dati allarmanti sono stati messi in luce da un rapporto dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, presentato presso la Camera dei Deputati.

I problemi del mercato del lavoro

Dopo lo stop causato dalla pandemia, il mercato del lavoro ha ripreso a crescere, tuttavia il percorso intrapreso è caratterizzato da numerosi ostacoli dovuti a criticità strutturali persistenti fino ad oggi. Tra questi fattori problematici si evidenziano:

  • Bassi salari: I livelli retributivi sono rimasti contenuti, rappresentando un elemento critico per il mercato del lavoro.
  • Scarsa produttività: La mancanza di un adeguato aumento della produttività contribuisce a ostacolare la crescita sostenibile del mercato del lavoro.
  • Poca formazione: La carenza di opportunità formative limita le competenze della forza lavoro, influenzando negativamente la sua adattabilità e produttività.
  • Welfare inadeguato: Il sistema di protezione sociale non è in grado di fornire una copertura adeguata a tutti i lavoratori. In particolare, i 4 milioni di lavoratori non standard e gli autonomi si trovano senza un supporto sicuro.

Il mercato del lavoro è ancora fortemente influenzato dal fenomeno noto come “labour shortage”, con molte imprese che faticano a occupare le posizioni vacanti. La discrepanza tra domanda e offerta si sta ampliando, creando ulteriori sfide.

Questi temi sono affrontati nel rapporto Inapp 2023, che dedica parte della sua analisi anche alla stagnazione degli stipendi, persistente per troppo tempo.

Stipendi fermi da tre decenni

Indubbiamente, uno dei principali nodi critici del mercato del lavoro riguarda la stagnazione degli stipendi, rimasti pressoché immutati nel corso di tre decenni. Nel periodo compreso tra il 1991 e il 2022, i salari reali hanno registrato una crescita appena del 1%, a fronte del 32,5% degli altri paesi dell’area Ocse.

Un’analisi più dettagliata, concentrando l’attenzione sul solo anno 2020, il terzo anno della pandemia da Covid-19, rivela una contrazione reale degli stipendi del 4,8%. Inoltre, nel corso dello stesso anno, si è verificata la più ampia differenza rispetto alla crescita dell’area Ocse, con un -33,6%.

Oltre alla questione degli stipendi, un ulteriore problema identificato riguarda la scarsa produttività. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la crescita della produttività in Italia è rimasta inferiori rispetto agli altri paesi del G7. Nel corso del 2021, il divario ha raggiunto il suo apice, attestandosi al 25,5%. Questi elementi contribuiscono a delineare un quadro complessivo in cui il mercato del lavoro italiano affronta sfide significative legate alla retribuzione e alla produttività.

Le dichiarazioni del presidente dell’Inapp

Il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, ha sottolineato che la questione salariale è stata perfino aggravata nell’ultimo triennio dall’incidere dell’inflazione. I salari reali sono addirittura calati rispetto al 2020, a fronte di incrementi sostanziali negli altri Paesi. Secondo Fadda potrebbe essere «utile in questo contesto l’introduzione del salario minimo legale». Anche considerato che le tanto celebrate norme sulla contrattazione collettiva, addotte spesso a ragione dell’opposizione al salario minimo, «non sono state capaci di garantire tra il 1991 e il 2022 la crescita dei salari reali». E d’altra parte, «non esistono ragioni né sul piano analitico né sul piano dell’evidenza empirica per escludere strumenti basati sull’imposizione di una soglia minima invalicabile».

Le dimissioni

C’è un aumento significativo tra i lavoratori che stanno considerando di lasciare il proprio impiego, come indicato dal rapporto Inapp. Il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni, corrispondente a oltre 3,3 milioni di persone, ha manifestato l’idea di dimettersi. Questa percentuale si suddivide in un 1,1% che sarebbe disposto a farlo anche a fronte di una riduzione del proprio tenore di vita e un 13,5% che prenderebbe questa decisione solo se trovasse alternative entrate economiche.

Le fasce più elevate di coloro che intendono dimettersi, indipendentemente dalla motivazione, si riscontrano tra gli occupati con un diploma (18,9%). Tale propensione diminuisce con l’aumentare dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza. Questi dati evidenziano un crescente disagio o insoddisfazione tra i lavoratori, con un numero significativo che contempla seriamente l’idea di abbandonare il proprio impiego, sia in condizioni di mantenimento del tenore di vita che in cerca di maggiori opportunità economiche.

Calano le assunzioni

Nel corso del 2022, il numero di nuove assunzioni è risultato inferiore rispetto al 2021, registrando 414mila nuove attivazioni rispetto alle 713mila dell’anno precedente. Questo decremento ha coinvolto un maggior numero di uomini rispetto alle donne, con il 54% di uomini e il 46% di donne tra le nuove assunzioni.

La pandemia ha colpito in modo significativo i giovani, già precedentemente colpiti dalla crisi del 2008. Nel 2022, tuttavia, si è notato un recupero nelle opportunità occupazionali per questa categoria, rappresentando il 26% delle nuove attivazioni nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, il 21% nella fascia di età 35-44 anni e il 20% nella fascia di età 45-54 anni.

In aggiunta a questi aspetti, si evidenzia un’ulteriore dinamica di carattere demografico. La popolazione e la forza lavoro stanno invecchiando, evidenziato dal fatto che nel 2022, per ogni 1.000 persone con un’età compresa tra 19 e 39 anni, ve ne erano 900 con un’età compresa tra 40 e 64 anni. Nel 2023, questo rapporto è ulteriormente cambiato, superando le 1.400 unità, indicando che per ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni, ci sono ora ben 1.900 lavoratori adulti-anziani. Questo aspetto aggiunge ulteriori sfide legate alla struttura demografica della forza lavoro.

Gli incentivi per assumere le donne non funzionano

Gli incentivi alle assunzioni sembrano non avere un impatto significativo, specialmente per le donne. Solo un esiguo 4,5% delle aziende ritiene che l’introduzione di programmi di incentivazione sia importante per le loro decisioni di assunzione. La probabilità di utilizzare programmi di incentivazione all’occupazione supera il 50% per le imprese di grandi dimensioni (con più di 250 addetti), ma scende sensibilmente al 24% per le microimprese. Le imprese del Mezzogiorno risultano essere più propense a utilizzare tali incentivi, con circa il 38% delle imprese del Sud e il 36% di quelle nelle Isole che dichiarano di averli utilizzati, rispetto al 20% in media delle aziende nelle altre aree.

Nonostante la presenza di varie forme di agevolazione, solo il 23,7% dei nuovi contratti attivati nel 2022 è stato interessato da incentivi. La decontribuzione è stata l’incentivo più utilizzato, coinvolgendo il 65% dei nuovi contratti, seguita dall’apprendistato (20%) e dagli incentivi specifici come l’esonero giovani (4,7%) e l’incentivo donne (4,8%). Tuttavia, nessuno di questi incentivi è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne. La composizione di genere e il relativo squilibrio rimangono immutati, con le donne che rappresentano solo il 40,9% delle assunzioni agevolate. Inoltre, il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è a tempo parziale, a differenza del 32,2% degli uomini. In sintesi, il ricorso agli incentivi sembra riprodurre i noti schemi di occupazione femminile, caratterizzati da una minore quantità e minori ore lavorate.