In ufficio ci sono situazioni cariche di tensione, che improvvisamente possono esplodere in gesti e comportamenti di cui pentirsi. Dagli insulti e parolacce si rischia di passare alle vie di fatto, con aggressioni fisiche e vere e proprie risse nei corridoi.
Come ha recentemente ricordato la magistratura milanese, il problema è che venire alle mani con un collega — pur dopo essere stati provocati — espone sempre al rischio di licenziamento disciplinare. In particolare, la sentenza 853/2025 della corte d’appello di Milano ha spiegato che va sempre tracciato un confine invalicabile tra legittima difesa e rissa. Violarlo significa esporsi alla massima sanzione disciplinare.
Vediamo allora più da vicino il caso concreto e la decisione, perché di orientamento per molti altri casi simili o analoghi.
Indice
L’aggressione tra colleghi, il caso
In breve, la vicenda esaminata dai giudici milanesi riguarda due dipendenti coinvolti in un violento litigio nello spogliatoio del magazzino aziendale. Prima gli insulti, poi spinte, manate e schiaffi. Un’escalation che ha portato l’azienda a licenziare entrambi i dipendenti per giusta causa.
Il dipendente che ha presentato ricorso contestava il provvedimento, sostenendo — fra le altre cose — che fosse necessario accertare chi avesse iniziato il diverbio. Tuttavia, sia il tribunale di Milano che la corte d’appello hanno respinto questa difesa, sottolineando alcuni principi fondamentali:
- serve una valutazione concreta della gravità. Infatti, anche quando il Ccnl di riferimento prevede in astratto l’espulsione, per casi come il litigio seguito da vie di fatto, non c’è un automatismo;
- il giudice deve sempre valutare tutti gli elementi, come la reale portata di quanto accaduto, la situazione in cui si sono verificati gli eventi, la proporzionalità tra comportamento e sanzione, e l’impatto sul vincolo fiduciario.
Questi punti di riferimento non sono nuovi. Infatti, la Cassazione — con sentenza n. 23881/2022 — aveva già ribadito che la previsione, contenuta nel contratto collettivo, non vincola il magistrato. Quest’ultimo, per valutare la correttezza del licenziamento in tronco, deve sempre svolgere una scrupolosa indagine sui fatti.
Il rilievo disciplinare della violenza fisica
Non sono gli insulti, le provocazioni o le minacce a far scattare la giusta causa. La Corte milanese è stata chiarissima e ha diviso tra attacchi verbali e violenze fisiche. La rissa, infatti, scavalca la legittima difesa perché una reazione così sproporzionata ad attacchi e offese orali, pur in preda a uno stato di esasperazione, non è mai consentita dalla legge.
La condotta del lavoratore, il quale passa dalle parole ai fatti, trascina il caso concreto dentro l’art. 2119 del Codice Civile sul licenziamento per giusta causa.
Ecco perché, spiega la magistratura milanese, non importa chi abbia iniziato. Uno dei punti più rilevanti della pronuncia n. 853 è proprio questo: l’accertamento del “primo colpo” non ha nessun peso, perché — ai fini disciplinari — ciò che conta è come reagisce il lavoratore.
In sostanza, se quest’ultimo:
- si limita a una difesa proporzionata e non violenta (ad es. allontanamento dall’aggressore, segnalazione al superiore, insulti reciproci), la condotta potrà essere valutata diversamente;
- risponde con un’aggressione, anche dopo provocazioni o insulti, il comportamento sarà tale da incrinare per sempre il rapporto fiduciario.
Come si può leggere dal testo della sentenza in oggetto, dopo l’istruttoria, i fatti sono risultati provati, accertati e pienamente idonei a giustificare la sanzione espulsiva. Quindi, per il giudice milanese, l’azienda ha fatto bene a licenziare ambo i dipendenti.
Un parallelo precedente giurisprudenziale
Ma la giurisprudenza conferma questo indirizzo, anche quando l’aggressione avviene fuori dall’orario o lontano dalla sede dell’ufficio. Quest’anno il tribunale di Teramo, con la pronuncia n. 688, ha, infatti, ribadito che la violenza resta disciplinarmente grave se comunque collegata all’ambiente aziendale, anche in luoghi esterni.
In quel caso, un dipendente aveva aggredito verbalmente e fisicamente un collega fuori dall’orario di lavoro, prima nel piazzale dell’azienda e poi in pronto soccorso, motivando la condotta con ragioni personali (gelosia). Il tribunale ha stabilito che non serve che il fatto avvenga durante il turno o dentro lo stabilimento. Infatti, basta un collegamento oggettivo con il luogo di lavoro o con i colleghi.
In questi casi, la violenza fisica dimostra una totale indifferenza per l’interesse aziendale, mina la serenità dell’ambiente lavorativo, danneggia l’organizzazione, mette a rischio la sicurezza delle persone e rompe irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Inoltre, l’aggressione è stata considerata equivalente al diverbio seguito da vie di fatto, previsto dal Ccnl quale giusta causa, e il movente personale — come gelosia o stress — non attenua mai la responsabilità disciplinare.
Che cosa cambia
Le giurisprudenza è netta. Non conta chi abbia iniziato, il peso dell’insulto, il luogo o l’orario di lavoro. La violenza rompe il legame di fiducia e giustifica il recesso immediato. Litigi, tensioni, momenti di rabbia: per incompatibilità caratteriali, fasi di crisi o opinioni diverse, in ogni ambiente di lavoro possono aversi scontri più o meno accesi.
Ma un conto è il diverbio verbale, per quanto spiacevole. Un altro è oltrepassare quella soglia che, ha spiegato il giudice di Milano, porta alle “vie di fatto”, cioè a un’aggressione fisica. Su questo punto, le corti italiane stanno assumendo una posizione sempre più rigorosa, e le sentenze citate lo confermano.
Le recenti pronunce della corte d’appello di Milano e del tribunale di Teramo chiariscono, in modo esemplare, quali sono i confini della giusta causa, quando può essere irrogato il licenziamento e perché in questi casi non conta chi abbia iniziato la lite.
Concludendo, un comportamento aggressivo mina la serenità del gruppo, influisce sull’organizzazione, mette a rischio la sicurezza e rompe definitivamente la fiducia. Le motivazioni personali non attenuano la gravità della condotta, né impediscono il licenziamento per giusta causa.
Ecco perché, in un ambiente sempre più stressante, la capacità di allontanarsi da una situazione che sta degenerando non è solo buon senso. È un modo concreto per preservare il proprio posto di lavoro.