Pausa bagno negata, scatta il risarcimento per danni morali

La Corte di Cassazione ha confermato il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dal dipendente a cui è impedito usare il WC

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 21 Maggio 2025 06:00

Dalla richiesta negata di espletare un bisogno fisiologico di chi sta svolgendo le proprie mansioni, può derivare un risarcimento economico gravante sul datore di lavoro? Se guardiamo alla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, la risposta è affermativa e invita tute le aziende ad adottare una linea di maggior equilibrio tra esigenze di produttività e dignità del lavoratore.

Vediamo insieme gli aspetti chiave della recente sentenza 12504/2025, la quale chiude un percorso legale che, al di là degli aspetti più propriamente tecnico-giuridici, ha avuto origine da un fatto, in qualche modo, grottesco e insolito per le aule di tribunale.

L’operaio a cui è stata negata la pausa bagno

Un operaio presso un’azienda automobilistica aveva citato in giudizio il datore di lavoro, chiedendo di essere risarcito con alcune migliaia di euro per non aver potuto orinare, usufruendo dei servizi igienici in orario di lavoro.  L’uomo di fatto non fu autorizzato a recarsi in bagno dal suo superiore – la prassi aziendale imponeva infatti il via libera della figura del team leader – vedendosi impedito l’esercizio di uno dei più scontati diritti della persona.

A destare incredulità è proprio la descrizione stessa di quanto successo che, fin dal primo grado di giudizio, gli avvocati dell’uomo hanno riportato in tutti i particolari. In osservanza delle regole aziendali, il lavoratore subordinato aveva ripetutamente, ma invano, azionato il dispositivo di chiamata di emergenza per potersi allontanare dalla sua postazione. Solo a quel punto, senza aver ancora avuto l’ok e giunto allo stremo, aveva deciso di correre ai servizi igienici “non riuscendo a evitare di minzionarsi nei pantaloni” – come si legge nella sentenza della Corte di Cassazione.

Evidentemente imbarazzato per l’accaduto e al fine di tornare alle sue mansioni con una giusta dose di tranquillità, l’uomo aveva chiesto di cambiare i propri indumenti al più presto, ma il permesso, anche in questo caso, non gli fu dato e l’uomo dovette aspettare la pausa. L’operazione di cambio abiti avvenne peraltro senza alcuna intimità e protezione da sguardi indiscreti, ma anzi aumentando ulteriormente l’imbarazzo davanti agli altri lavoratori, donne incluse.

La Cassazione conferma il risarcimento

In primo e in secondo grado, i giudici si sono schierati, senza sorprese, dalla parte del dipendente. In particolare, già alcuni anni fa il magistrato dell’appello aveva confermato la decisione del tribunale per il risarcimento dei danni non patrimoniali, perché i fatti di causa e le prove presentate dal lavoratore mostravano con una certa chiarezza la lesione alla dignità personale.

Si sarebbe trattato dunque di una violazione dell’art. 2087 del Codice Civile (di cui abbiamo recentemente parlato in riferimento al lavoratore licenziato per aver fumato in ufficio e a chi ha dovuto abbandonare il posto per una frase molesta), che afferma che:

L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

L’azienda chiamata in causa si è difesa con una serie di motivi, forse sperando un clamoroso ribaltamento in Cassazione. Per esempio il datore di lavoro ha sostenuto che i giudici non avessero tenuto conto di circostanze eccezionali e in grado di alterare la normale operatività del reparto e che avessero ritenuto che il lavoratore si fosse effettivamente minzionato nei pantaloni, pur in mancanza di conferma testimoniale.

Al di là delle considerazioni di merito che, come è noto, non spettano alla decisione della Suprema Corte, quest’ultima, ricostruendo il ragionamento seguito dai giudici d’appello e valutandolo aderente ai dettami di legge, ha confermato la condanna al risarcimento economico pari a 5mila euro, insieme al pagamento delle spese della lite e di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Bisogno fisiologico: cosa dice la legge

Al di là dell’aspetto grottesco di una vicenda che, a dire il vero, quasi ricorda una scena delle classiche commedie all’italiana, l’esito della causa legale giunta fino in Cassazione dimostra che in circostanze come queste, il lavoratore o la lavoratrice possono e debbono chiedere giustizia, per aver patito una situazione umiliante.

Negare l’importanza del bisogno fisiologico, che si lega al diritto alla salute costituzionalmente tutelato, è una palese lesione della dignità personale della persona. In questo caso, il lavoratore ha subito un danno morale da quanto accaduto, e non per sua colpa. L’azienda avrebbe dovuto agevolarlo per quanto possibile e rientrante nelle sue possibilità, mentre, come emerso dai fatti di causa, la prassi applicata nei reparti non era di certo compatibile con situazioni di “urgenza” come quella sopra indicata.

E, a dire il vero, non è la prima volta che la Corte si occupa di questo argomento un po’ insolito per le aule di tribunale. Ad esempio la Cassazione Penale con sentenza 13124/2019 si era espressa in merito alla possibilità per l’automobilista di fare una sosta nella corsia di emergenza, in caso di necessità di espletare funzioni corporali.

Infatti, il bisogno fisiologico, determinando una minor attenzione o cautela del conducente del veicolo, e costituendo un pericolo per l’automobilista stesso e per i terzi, giustifica esso stesso la sosta.

Analogamente, la scarsa attenzione che si può presupporre in un operaio avente un impellente bisogno fisiologico, dovrebbe suggerire norme aziendali più elastiche, o comunque strumenti che agevolino al massimo l’accesso ai servizi igienici. Se così non è, il dipendente potrà fare causa con ragionevoli probabilità di vincerla e, proprio per questo, la sentenza 12504/2025 della Corte di Cassazione rappresenta un chiaro punto di riferimento.