A volte, tra la perdita del posto di lavoro e la permanenza in azienda, c’è una sottile linea. E questa sottile linea tocca l’argomento delicato dello spostamento a mansioni inferiori, o demansionamento, quella situazione lavorativa in cui a un lavoratore sono assegnate attività inferiori rispetto a quelle originariamente previste in contratto. Tipicamente il fenomeno comporta una riduzione del livello di inquadramento professionale e ha conseguenze significative sia dal punto di vista economico, che psicologico.
Con una decisione di quest’anno, la n. 19556, la Cassazione ha spiegato che il demansionamento è legittimo quando l’azienda, per salvare un posto di lavoro, non ha altra possibilità che proporre un posto di lavoro più in basso nella scala gerarchica. Se però il dipendente rifiuta, potrà essere licenziato per giustificato motivo oggettivo. Vediamo più da vicino questa sentenza che, come intuibile, ha una portata generale per tutti i rapporti di lavoro subordinato.
Indice
Quando il dipendente che rifiuta il demansionamento può essere legalmente licenziato
In estrema sintesi, ricordiamo che il demansionamento trova fondamento nell’art. 2103 Codice Civile, secondo cui il dipendente deve essere adibito alle mansioni di assunzione, o a mansioni equivalenti. Ma la regola generale non è un obbligo valido sempre e comunque: ci sono eccezioni, debitamente delimitate, per cui al datore è consentito attribuire mansioni inferiori rispetto a quelle originariamente in contratto.
In particolare, la Cassazione ha più volte spiegato che, se arbitraria, senza giustificazione oggettiva o frutto di discriminazione o mobbing (contro cui ci si può difendere), tale ricollocazione è illegale, ma se l’alternativa al taglio di stipendio è lo stop al rapporto con cancellazione del posto, il demansionamento – dovuto a difficoltà interne dell’azienda – è ammissibile dalla legge. Se il dipendente si oppone, come nel caso finito all’attenzione della Corte, è fuori dall’azienda.
Nella vicenda l’uomo aveva impugnato il licenziamento, ma si era dichiarato disponibile a valutare soltanto ruoli di pari livello e pari retribuzione, traducendosi ciò – spiega la Cassazione:
in un rifiuto alla soluzione alternativa offerta dal datore che legittima il recesso dal rapporto di lavoro.
La decisione ha così confermato la correttezza del recesso ma – soprattutto – ha spiegato che questo meccanismo (già sostenuto dalla Cassazione fin dalla sentenza delle Sezioni Unite 7755/1998) deroga, o comunque rende più elastica la regola del repêchage, ossia il ripescaggio in un’altra posizione dello stesso livello e senza – quindi – il rischio di modifica peggiorativa dell’inquadramento contrattuale.
Il limite del rispetto della categoria legale
Attenzione però, la stessa sentenza non flessibilizza al massimo il demansionamento per rischio licenziamento, perché la nuova, eventuale, mansione inferiore deve comunque essere inclusa – spiega la Corte – nella stessa categoria legale del dipendente, ossia una tra dirigenti, quadri, impiegati e operai.
Per fare un esempio pratico, consideriamo il classico impiegato amministrativo con mansioni di responsabilità, come la supervisione del bilancio e dei rapporti con i fornitori. A causa di motivi interni aziendali, gli viene offerto un altro ruolo da impiegato all’interno dell’ufficio, con mansioni esecutive più semplici, come l’inserimento dati e la gestione dell’archivio, ma senza variazione di categoria legale. Ebbene, secondo il ragionamento della Cassazione, questa proposta sarebbe legittima perché ricadrebbe nella stessa categoria legale (“impiegati”), pur comportando un demansionamento in termini di contenuti professionali e retribuzione. Se il lavoratore rifiuta, il licenziamento può essere considerato legittimo.
Viceversa, si pensi a un quadro con funzioni direttive in un reparto commerciale. L’azienda subisce un calo di fatturato, decide di tagliare alcuni ruoli dirigenziali e gli propone un posto da impiegato front office, con mansioni di accoglienza clienti e supporto amministrativo di base. Ebbene, in questo caso il cambiamento di categoria legale è una violazione delle regole, incompatibile con l’obbligo di repêchage imposto dalla Cassazione.
Di conseguenza, il no del quadro sarebbe del tutto legittimo e, in una eventuale causa legale, il licenziamento potrebbe essere dichiarato nullo o comunque illegittimo. Sostanzialmente, lo spostamento deve comunque aversi in un ambito professionale omogeneo, seppur a un livello di responsabilità e di retribuzione più basso. In questo modo sarà compatibile con l’art. 2103 Codice Civile.
Che cosa cambia
Con la decisione n. 19556 la Cassazione ha stabilito che, per evitare il licenziamento, l’azienda non solo può, ma deve offrire al dipendente mansioni inferiori, qualora manchino quelle equivalenti. In sostanza, in momenti di riorganizzazione aziendale o forti difficoltà economiche, proseguire il rapporto di lavoro – seppur con mansioni più basse (e pagate di meno) – prevale sull’alternativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (da tenersi ben distinto da quello soggettivo). Il meccanismo è pienamente aderente alla legge e alle regole di correttezza e buona fede contrattuale.
Se da un lato il dipendente che rifiuta il passaggio, potrà essere legalmente mandato via, dall’altro il datore che non valuterà la possibilità di un repêchage “allargato” – licenziando bruscamente il dipendente – rischierà una causa in tribunale, con invalidazione dello stesso recesso da parte del giudice. Il datore deve infatti poter dimostrare di aver fatto tutto il possibile per salvare il posto di lavoro, vagliando ogni altro possibile spostamento in organico – restando nella stessa categoria legale.
Lo scorso anno la Corte ha altresì precisato che il ricollocamento dovrà pur sempre avvenire – si legge nella decisione n. 19556:
in mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il dipendente è dotato al momento del licenziamento e che non necessitano di specifica formazione (sul punto Cass. 17036/2024 e Cass. 10627/2024).
Infine, l’azienda che sosterrà e proverà in tribunale di aver pienamente adempiuto al suo obbligo di repêchage, dando una posizione alternativa (seppur di grado inferiore) e che è stato – invece – il dipendente, con il suo no, a rendere inevitabile la cessazione del rapporto, si troverà in una botte di ferro. L’ormai ex lavoratore non potrà rivendicare nulla se non il Tfr.