Troppe pause caffè costano il posto? La nuova sentenza della Cassazione

Fermarsi frequentemente al bar per troppo tempo può costare il posto di lavoro. Lo ha confermato la Suprema Corte con un'ordinanza di pochi giorni fa

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 24 Novembre 2024 20:00

Con un orario di lavoro a tempo pieno, la pausa è più che giustificata. Prevista dalla legge e dai contratti collettivi, l’interruzione momentanea delle proprie attività serve a rilassarsi per alcuni minuti, chiacchierando con i colleghi, facendo quattro passi o leggendo le ultime news sul proprio smartphone. La pausa serve però anche a gustarsi un buon caffè, a patto che questo non diventi una vera e propria abitudine. Ciò vuol dire uno stop ripetuto e prolungato nel corso del tempo e durante l’orario d’ufficio.

In materia è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione. Il provvedimento ha confermato la correttezza della scelta del licenziamento disciplinare da parte dell’azienda. Il motivo? Un dipendente era dedito a soffermarsi un po’ troppo al bar con delle vere e proprie “maxi-pause”.

Vediamo insieme – in sintesi – i contenuti della vicenda che ha portato a una decisione dei giudici, che è di monito e orientamento per chi lavora alle dipendenze.

Il caso

La pausa con l’uscita dall’ufficio per consumare cornetto e cappuccino ha sicuramente una valenza anti-stress, ma non bisogna eccedere – rischiando di compromettere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. L’ordinanza n. 27610/2024 della Cassazione prende le mosse dalla seguente vicenda. Un lavoratore subordinato, impiegato presso una società di raccolta rifiuti, ha subito la massima sanzione disciplinare perché accusato di aver fatto lunghe pause al bar. Il tutto nell’ambito dell’orario di lavoro.

Non un fatto isolato ma un’abitudine consolidata. Ciò è stato accertato e documentato anche dal servizio di investigazione, che l’azienda aveva contattato per contribuire a fare luce sui comportamenti dell’uomo. Quest’ultimo aveva peraltro un ruolo di coordinamento e quindi di specifica responsabilità. Stando alla ricostruzione dei fatti, evidenziata nel corso della disputa giudiziaria, aveva preferito assentarsi dal posto di lavoro per oltre mezz’ora in più occasioni. Ciò al fine di bere caffè e scambiare quattro chiacchiere con i colleghi al bar.

Nell’ordinanza della Cassazione si trova infatti scritto che il dipendente era stato:

sorpreso costantemente in luoghi pubblici e per tempi irragionevoli, degustando consumazioni e chiacchierare con i colleghi.

Inoltre, sulla scorta delle ricostruzioni dell’investigatore privato, l’uomo non avrebbe registrato queste pause nei fogli presenza. Gli stessi sarebbero stati ritoccati per ingannare l’azienda.

La Cassazione conferma la decisione dell’appello

L’iter giudiziario si è articolato nei tre gradi di giudizio, vale a dire tribunale, appello e Cassazione. Proprio presso i giudici di piazza Cavour la controversia è giunta al suo epilogo. Secondo quanto indicato nel testo dell’ordinanza n. 27610, in sostanza il lavoratore subordinato aveva ripetutamente violato i suoi obblighi di diligenza, correttezza e buona fede, di cui al Codice Civile.

Il 24 ottobre scorso, il giudice di legittimità ha così confermato la sentenza di appello e respinto il ricorso del dipendente. Questi si era opposto alla validità delle indagini affidate a un detective.

In particolare, nel testo del provvedimento si legge che la corte d’appello ha ritenuto determinante il comportamento dell’uomo, che:

si dedicava preordinatamente, e quale prassi tanto costante quanto illegittima, a incontri all’interno di esercizi commerciali in orari di lavoro. Incontri che non si esaurivano nella degustazione di consumazioni varie o, se del caso, nell’espletamento di bisogni fisiologici all’interno delle strutture, ma continuavano in ameni colloqui all’esterno degli esercizi commerciali dove il reclamante trascorreva gran parte delle pause non autorizzate.

Ma soprattutto tali pause, frutto di una scelta arbitraria del lavoratore, non:

duravano il tempo necessario a ristorarsi, trattandosi di incontri che raggiungevano, in via esemplificativa, la durata di 36 minuti (21.10.16), 38 minuti (10.11.16), 42 minuti (22.11.16) e in cui la gran parte del tempo era trascorso nel colloquio successivo alla consumazione della colazione.

Ecco perché la Cassazione ha ribadito che non poteva essere accolta la difesa del lavoratore, secondo cui le pause dal lavoro avrebbero dovuto considerarsi legittime in base a quanto previsto dall’art. 8 del d. lgs. 66/2003.

Il ricorso legittimo all’investigatore privato

Le lunghe pause non autorizzate hanno ingannato l’azienda, che – per fare luce sulla situazione – ha dovuto ricorrere al pedinamento dell’investigatore privato, in cui servizio è legittimo – ricorda la giurisprudenza della Suprema Corte – se mirato a tutelare il patrimonio aziendale e appurare eventuali frodi, inganni o abusi di permessi (come in questo caso) e altri diritti tra cui quello alle pause.

In particolare, la Cassazione ha rimarcato che un datore di lavoro può rivolgersi a investigatori esterni, esclusivamente in caso di fondati e specifici sospetti su comportamenti e prassi scorrette (e pur rispettando le norme in tema di privacy). In questa vicenda, l’azienda aveva “fiutato” le pause senza giustificazione del suo dipendente e, perciò, era ricorsa – legittimamente – al detective.

Non solo. I fatti di causa avevano rilievo penale perché idonei ad ingannare o frodare il datore di lavoro e a danneggiare non soltanto il patrimonio aziendale, ma anche l’immagine dell’azienda all’esterno e nei confronti dei cittadini. Tutti elementi che hanno reso legittime le indagini investigative, considerato che – oltre ai beni materiali – anche la reputazione e la fiducia del pubblico sono asset aziendali da proteggere.

Ricapitolando, la Cassazione, con l’ordinanza pubblicata il 24 ottobre scorso, ha così confermato la legittimità del recesso dell’azienda, evidenziando la presenza della giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro. Si tratta quindi di un caso di licenziamento in tronco e senza preavviso e la decisione aziendale è stata ritenuta proporzionata alla gravità dell’inadempimento e al danno causato all’azienda.

Che cosa cambia per i lavoratori

L’ordinanza dei giudici di piazza Cavour ribadisce uno dei doveri tipici del lavoratore subordinato, il quale è tenuto a rispettare l‘orario di lavoro così come disciplinato dalla legge e dal Ccnl di settore, senza abusare del diritto alla pausa e senza effettuare quest’ultima in modo del tutto arbitrario.

In riferimento ai lavoratori, l’ordinanza dovrebbe contribuire a cambiare alcune abitudini o prassi che potrebbero rivelarsi pericolose, per la prosecuzione del rapporto di lavoro. Rispettare gli spazi di pausa in modo rigoroso è opportuno al fine di evitare contestazioni e provvedimenti disciplinari e piuttosto, se si rivela necessario allontanarsi dal posto di lavoro per motivi personali o per ragioni urgenti, il lavoratore farà bene ad usare un po’ di buon senso, avvertendo quanto prima l’azienda per colmare il “buco” con un sostituto.