I rapporti di lavoro devono, o dovrebbero, essere sempre caratterizzati da correttezza, diligenza e buona fede, ossia da quei fattori che nel Codice Civile sono indicati come essenziali per una proficua prosecuzione delle relazioni azienda-dipendente.
Comportarsi correttamente significa non soltanto eseguire le direttive dei superiori e favorire un clima di collaborazione e rispetto reciproco tra colleghi, ma anche rapportarsi con educazione e moderazione nei confronti dei clienti, usando sempre un linguaggio appropriato e non scurrile.
La Cassazione – con l’ordinanza n. 26440 dello scorso 10 ottobre – ha trattato proprio questi temi e ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare nei confronti di un lavoratore subordinato che, nell’ambito dell’esercizio delle sue mansioni, aveva rivolto espressioni sgarbate e maleducate a un cliente.
Di seguito vedremo in sintesi la vicenda che ha condotto le parti in tribunale e portato poi alla decisione della Suprema Corte e coglieremo l’occasione per fare chiarezza sui rischi che si corrono in tema di sanzioni disciplinari.
Indice
Il caso
Come si può leggere nel testo dell’ordinanza succitata, in Corte d’appello era stato accolto il reclamo effettuato dalla società datrice di lavoro e – in riforma della sentenza di primo grado – veniva respinta l’impugnativa del licenziamento per giusta causa, compiuta da un dipendente addetto al banco macelleria di un supermercato.
I fatti indicano che all’uomo era stato contestato di essersi rivolto ad un cliente in maniera sgarbata e scurrile e, in particolare, la Corte d’appello – si legge nell’ordinanza – aveva accertato l’effettivo comportamento e sottolineato:
la volgarità e l’aggressività dimostrate dal lavoratore, peraltro nei confronti di una persona anziana […]; la gravità della condotta per avere il dipendente proseguito il diverbio, anziché chiedere scusa al cliente, con toni sempre più accesi, dando uno spettacolo indecoroso e anche un po’ preoccupante.
Per questo il giudice del secondo grado ha considerato integrata la previsione dell’art. 215 del Ccnl dipendenti del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi, che punisce disciplinarmente con il licenziamento le gravi violazioni degli obblighi di cui allo stesso contratto collettivo, tra cui quello di usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri.
Non solo. Come si legge nell’ordinanza della Corte, questo giudice non ha potuto che tener conto anche dei:
precedenti disciplinari infrabiennali che, se pure non specifici, tuttavia rivelavano un reiterato disprezzo delle regole che rendeva non più proseguibile il rapporto di lavoro.
Contro la sentenza del secondo grado, che aveva stabilito la legittimità e la congruità del licenziamento in tronco rispetto al comportamento tenuto dal dipendente, quest’ultimo si giocò l’ultima carta del ricorso per Cassazione.
La decisione
Presso la Suprema Corte, il legale dell’uomo si era opposto alla sentenza attraverso cinque motivi, in cui cui tra l’altro veniva rimarcata la condotta arrogante e violenta del cliente, la assenza di altri clienti al momento del fatto e quindi l’asserita minor portata lesiva dello stesso per l’immagine della società, la lunga durata del rapporto di lavoro e la mancanza di precedenti disciplinari specifici. Ciò però non è bastato a far ribaltare la decisione del precedente grado di giudizio.
La Corte ha infatti ricordato che:
- la Corte d’appello ha correttamente addossato alla società datrice di lavoro l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni contestate, e ha considerato questo onere puntualmente assolto;
- la selezione e la valutazione delle risultanze istruttorie è compito strettamente riservato al giudice di merito e non è suscettibile di censura in Cassazione. In altre parole la Cassazione non può riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma può soltanto controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, la bontà delle argomentazioni svolte dal giudice di appello, sulla scorta delle prove emerse;
- come già chiarito da varie sentenze della Cassazione, la giusta causa di licenziamento si pone sul piano del giudizio di fatto, che è compito del giudice di tribunale e di appello (primo e secondo grado), essendo invece incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici.
In sostanza, nel caso in oggetto, il ricorrente non ha fondato l’impugnazione della sentenza d’appello su motivi che potessero ricevere esame e accoglimento da parte della Cassazione. In termini tecnici, quest’ultima ha infatti affermato che il lavoratore non ha identificato quali siano i parametri integrativi della clausola generale che:
sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi a sollecitare una diversa valutazione degli elementi scrutinati nella sentenza d’appello e a ribadire l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento.
Chiarimenti sulla giusta causa e compiti del magistrato
La Cassazione, respingendo il ricorso del dipendente, ha ribadito il proprio orientamento in tema di giusta causa di licenziamento, sulla scorta dell’art. 2119 del Codice Civile. Questo giudice ha così rimarcato che la giusta causa rappresenta una clausola generale, il cui contenuto viene definito dal magistrato tramite la considerazione di fattori esterni e principi sottesi.
E se è vero che la valutazione di merito svolta dal giudice sulla clausola generale, non sfugge al controllo in sede di legittimità, è altrettanto vero che tale controllo va circoscritto – caso per caso – al giudizio di coerenza con gli standard e i valori dell’ordinamento e della realtà sociale.
In sostanza, al di là di una specifica sanzione disciplinare nel contratto collettivo nazionale, la società datrice di lavoro può considerare il comportamento del suo dipendente inaccettabile e effettuare il licenziamento in tronco.
Che cosa cambia
L’ordinanza n. 26440 della Corte di Cassazione ribadisce i limiti del controllo, in sede di legittimità, della giusta causa di recesso e conferma la legittimità del licenziamento del lavoratore che ha aveva usato parole sgarbate e offensive contro un cliente.
Per l’uomo, rispetto al primo grado, la situazione si è ribaltata. Il ricorso presso la Corte è stato infatti respinto, allineandosi alle conclusioni dell’appello. In secondo grado, come sopra accennato, emerse la gravità della condotta del dipendente il quale, oltre ad aver intrapreso una discussione con toni accesi, non aveva poi chiesto scusa. Sull’uomo peraltro già pendevano alcuni precedenti disciplinari che, di fatto, ne hanno ulteriormente aggravato la posizione.
Nel caso in oggetto il ricorso del dipendente è stato dichiarato inammissibile perché si limitava a contestare – in modo generico – il giudizio della Corte territoriale, senza dettagliare quali fossero gli aspetti della clausola generale che sarebbero stati violati. Ecco perché oltre a confermare il licenziamento per giusta causa, la Cassazione ha condannato l’ormai ex dipendente al pagamento delle spese legali.