Falso profilo social per controllare i dipendenti, la Cassazione dice che è legale: i casi

Si può controllare il dipendente sospettato di negligenze con una finta identità digitale? Per la Cassazione sì, ma con alcune importanti precisazioni

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 1 Novembre 2024 19:00

A prima vista sul web i confini tra lecito e illecito non sono talvolta così chiari e limpidi. Protetti da uno schermo, ci sono utenti che ad es. si lasciano andare a commenti fin troppo pepati o pubblicano foto tali da ledere la dignità di soggetti terzi: in questi casi, gli autori dei contenuti potrebbero esporsi a conseguenze penali, per aver assai disinvoltamente utilizzato il mezzo informatico e i social network.

Ma pensiamo anche ai profili fake, ossia quegli account creati con identità false o inventate. Frequentemente tali profili utilizzano nomi, immagini e informazioni non corrispondenti a una persona reale, o copiano l’identità di qualcun altro senza autorizzazione. L’autore di un profilo del genere potrebbe esporsi ad accuse di frode, diffamazione, cyberbullismo e non solo, ma – come chiarito dalla Cassazione in una sentenza – al datore di lavoro non è, in linea di principio, vietato creare un falso profilo Facebook per “spiare” i dipendenti, laddove abbia il fondato sospetto di qualche loro violazione.

Vediamo insieme i contenuti di un provvedimento che, in qualche modo, può sorprendere.

La vicenda

Il responsabile del personale di un’azienda, già informato su anteriori casi di assenteismo di un dipendente, aveva deciso di creare un falso profilo femminile su Facebook, richiedendo l’amicizia ad un lavoratore che era apparso poco incline a rispettare l’orario di lavoro.

In particolare, il responsabile – insospettito dal fatto che il dipendente si fosse in precedenza allontanato dalla postazione per fare una telefonata, lasciando incustodito un macchinario – mirava ad accertare la negligenza dell’uomo, chattando con lui nell’orario lavorativo per dimostrarne il comportamento sbagliato e le violazioni disciplinari. In particolare, l’uomo era sospettato di violare le disposizioni aziendali sulla sicurezza delle fasi di lavorazione e degli impianti.

Tecnicamente parlando, quello in oggetto è un esempio di controllo difensivo, ossia una misura adottata appositamente dal datore di lavoro per tutelarsi da eventuali illeciti o comportamenti lesivi commessi dai propri dipendenti.

Adescato dal finto profilo femminile, il dipendente nel mirino si era così concesso al dialogo in orari compatibili con quelli lavorativi e da posizioni geolocalizzate con lo stesso social network, compatibili con l’area in cui ha sede lo stabilimento.

L’astuto stratagemma del falso profilo Facebook ha permesso all’azienda di aver conferma sui sospetti di negligenza del lavoratore. Ne è seguito così l’avvio della procedura di licenziamento per giusta causa, contro cui l’uomo si era rivolto alla magistratura.

La decisione della Corte di Cassazione

La lite giudiziaria, giunta fino alla Cassazione, si è conclusa con una sentenza favorevole all’azienda – la n. 10955 del 27 maggio 2015. Infatti, secondo la Corte, la scelta di creare un falso profilo Facebook:

  • non indica la mera volontà di verificare una prestazione professionale,
  • ma prova l’urgenza di trovare un modo per evitare condotte illecite dei lavoratori, ai danni della stessa azienda e del connesso patrimonio e tali da mettere a rischio la sicurezza e il regolare funzionamento di macchinari e impianti.

Infatti, nel testo della sentenza si può leggere quanto segue:

La condotta dell’azienda che, per accertare la commissione di un presunto comportamento illecito, crea un falso profilo su un social network, contatta il dipendente sospettato e lo induce ad una conversazione virtuale in orario e in luogo di lavoro, non è sussumibile fra quelle disciplinate dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, e rispetta i diritti di libertà e dignità dei lavoratori nonché i principi di buona fede e correttezza.

In sostanza, la Corte ha ritenuto che la linea adottata dall’azienda non violasse la allora vigente formulazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970) in materia di controllo a distanza dell’attività del dipendente.

Il licenziamento come sanzione proporzionata al caso concreto

In particolare, la Cassazione – ribadendo le conclusioni della Corte d’appello – ha chiarito che la creazione del falso profilo FB non rappresenta una violazione dell’art. 4 della legge n. 300/1070, perché tale controllo difensivo – utilizzato per accertare i fatti – non aveva:

i caratteri della continuità, anelasticità, invasività e compressione dell’autonomia del lavoratore, nello svolgimento della sua attività lavorativa.

Non solo. Questo giudice ha ritenuto corretto il giudizio di proporzionalità tra i fatti accertati e la sanzione inflitta – svolto dalla Corte d’appello – ritenendo che si fosse in presenza di inadempimenti che esulano dallo schema previsto dall’art. 10 del contratto collettivo applicato:

in considerazione del fatto che il dipendente era stato già sanzionato per fatti analoghi nel 2003 e nel 2009 e che tali precedenti erano stati espressamente richiamati nella lettera di contestazione.

L’art. 4 Statuto dei Lavoratori e il divieto dei controlli a distanza

Per fondare la sua sentenza che considera lecito l’uso di un falso profilo FB in queste circostanze, la Suprema Corte ha osservato che:

  • l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori limita le apparecchiature di controllo a distanza e subordina ad accordo con le r.s.a., o a disposizioni ad hoc dell’Ispettorato del Lavoro, l’installazione di dette apparecchiature rese necessarie da esigenze organizzative e produttive;
  • il controllo, se mirato non a verificare lo svolgimento in sé dell’attività lavorativa o l’esatto adempimento delle obbligazioni scaturenti dal rapporto, ma a proteggere beni del patrimonio aziendale e a impedire comportamenti illeciti, resta tuttavia fuori dallo schema normativo di cui al richiamato art. 4 dello Statuto.

In questo caso il comportamento illecito era rappresentato dalle chat e dalle conversazioni, intrattenute dal dipendente durante l’orario di lavoro, con conseguente rischio per la sicurezza degli impianti e per il regolare funzionamento dell’azienda.

Un altro caso di non applicazione delle regole di cui all’art. 4, è dato dal ricorso ad investigatori privati finalizzato ad accertare utilizzi impropri dei permessi legge 104.

La possibilità di controlli difensivi occulti

Alla luce di quanto visto finora e considerata una giurisprudenza ormai consolidata su questi temi, non sorprende che – per la Cassazione – siano tendenzialmente ammissibili i controlli difensivi “occulti”:

anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti al l’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.

Non solo. Per la Corte tale controllo difensivo, con finto profilo FB di donna, era giustificabile dal fatto che il lavoratore – nei giorni precedenti – aveva violato la disposizione aziendale che vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività extra-lavorativa nell’orario di lavoro.

In un contemperamento di distinti interessi, la Cassazione si è mostrata così di orientamento tollerante e non rigido nei confronti di verifiche che, sebbene in qualche modo ingannevoli, hanno però – come solo obiettivo – quello di individuare, condannare e punire gesti o negligenze dei lavoratori, tali da mettere a rischio il regolare funzionamento dell’impresa e il suo profitto. Applicando il famoso proverbio “Il fine giustifica i mezzi”, la falsa identità digitale è stata perciò considerata lecita e non contraria alla legge.

Cosa cambia

Per il lavoratore è cambiata in modo definitivo la sua posizione, visto che la Corte ha confermato la bontà del recesso, per motivi disciplinari, da parte del datore di lavoro. Ma è soprattutto l’indirizzo della Cassazione a costituire l’eccezione rispetto alla regola: infatti, in materia di licenziamento per giusta causa, l’azienda che crea un falso profilo social per accertare la condotta dei propri lavoratori, non commette alcun reato.

Questa è la decisione presa con la citata sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015, dalla quale emerge una sorta di accettazione da parte della giurisprudenza verso atteggiamenti e controlli dei superiori che, pur risultando ingannevoli e occulti, mirano a tutelare il bene primario dell’incolumità dell’azienda (salvaguardando indirettamente anche gli altri rapporti di lavoro in essere).

In altre parole, con il provvedimento di cui abbiamo parlato sopra, la Cassazione ha fatto luce su una condotta che, a prima vista, potrebbe essere considerata illegale, ma che illegale non è. La Corte ha infatti stabilito che, in realtà, non vìola alcuna norma di legge l’azienda o datore di lavoro – e nel caso specifico che qui interessa il responsabile del personale – che decide di creare una finta identità digitale per controllare un dipendente, avendo il sospetto di sue negligenze e scorrettezze. Nella vicenda che ha portato al provvedimento di questo giudice erano in effetti emerse non poche assenze dall’ufficio, tanto da legittimarne il licenziamento disciplinare.

Concludendo, il ricorso del dipendente è stato respinto, confermando sostanzialmente le conclusioni del giudice del secondo grado e la correttezza del licenziamento per giusta causa inflittogli.