Caratteristiche del contratto a tutele crescenti

Requisiti e le funzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. La guida rapida

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Nel linguaggio comune il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti consiste in un tipo di contratto a tempo indeterminato ideato dal governo nel 2015. Esso si inquadra nell’ambito della riforma lavorativa del 7 marzo 2015 del cd. “Jobs act”, voluto fortemente dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi.

Dal punto di viste tecnico-giuridico, il contratto di lavoro a tutele crescenti non rappresenta però – in realtà – una nuova tipologia contrattuale, ma piuttosto un nuovo regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo, in sostituzione della disciplina di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, vale a dire la legge n. 300 del 1970.

Vediamo insieme più da vicino che cos’è il contratto a tutele crescenti e come funziona, a chi si applica e quali aggiornamenti ha portato alla materia dei licenziamenti e allo Statuto dei Lavoratori.

Contratto a tutele crescenti: cos’è

Come abbiamo appena accennato, il contratto a tutele crescenti non è un vero e proprio contratto ma più esattamente è una nuova disciplina che si concentra, in particolare, sui punti riguardanti il diritto di recesso da parte del datore di lavoro – quando si è in presenza di un contratto a tempo indeterminato.

Questa disciplina si sostanzia nel testo del decreto legislativo attuativo n. 23 del 4 marzo 2015 e si tramuta in una sorta di semplificazione in caso di recesso.

In particolare, laddove vi siano casi di licenziamento ingiustificato il lavoratore non ha più diritto al reintegro, ma ad un indennizzo che cresce con l’aumentare dell’anzianità lavorativa. Per questo si chiama contratto ‘a tutele crescenti’.

A chi si applica il contratto a tutele crescenti

Tale regime viene applicato alle seguenti categorie di persone:

  • coloro che, a partire dalla data di entrata in vigore del d. lgs n. 23/2015, ovvero il 7 aprile 2015, sono stati assunti con contratto a tempo indeterminato
  • lavoratori con contratto a tempo determinato, trasformato a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015
  • dipendenti con contratto di apprendistato, trasformato a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015
  • tutti i lavoratori di un’azienda che per una nuova assunzione dopo il 7 marzo 2015, oltrepassa i 15 dipendenti (indipendentemente dalla data di assunzione).

Inoltre il passaggio al nuovo sistema può avvenire in ipotesi di passaggio a nuova azienda.

A chi non si applica il contratto a tutele crescenti

Attenzione però, le norme sul contratto a tutele crescenti non hanno portata retroattiva e ciò significa che coloro che sono stati assunti con il vecchio contratto a tempo indeterminato, potranno contare sul previo apparato di regole di tutela in campo di licenziamento – e dunque anche sul diritto di reintegro in azienda.

In altri termini, per questi ultimi continua a valere il testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, senza modifica. In particolare nel testo si può leggere che il giudice, con la sentenza con cui dichiara l’illegittimità del licenziamento:

ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.

Inoltre dall’applicazione delle norme sul contratto a tutele crescenti sono esclusi i dirigenti.

Gli obiettivi del contratto a tutele crescenti

Nel governo dell’epoca del Jobs Act prevalse l’idea per cui l’articolo 18 aveva prodotto un sistema di tutela eccessiva del lavoratore, in caso di licenziamento. Infatti le aziende rischiavano di dover pagare risarcimenti molto ingenti. Non solo: si è immaginato che tale norma facesse demordere gli investitori stranieri, spostando altrove le loro prospettive di affari.

Insomma, la finalità del Jobs Act era introdurre un apparato di tutele, nuove e differenti rispetto a quelle previste dall’articolo 18. In sostanza:

  • la possibilità del dipendente di essere reintegrato nel posto di lavoro è quasi sempre esclusa
  • è prevista un’indennità definita per il lavoratore licenziato, che aumenta col crescere del numero di anni di anzianità di servizio

Permaneva dunque la volontà di tutelare i lavoratori assunti a tempo indeterminato contro il licenziamento illegittimo, seppur con modalità diverse. E con questo nuovo apparato di norme le aziende erano facilitate nelle assunzioni a tempo indeterminato grazie a norme più chiare sui licenziamenti. O almeno questo era l’intento del legislatore che ha varato tale riforma delle norme sul recesso datoriale.

Quando si applica ancora la reintegra sul posto di lavoro

Al di là dei soggetti a cui, in generale, si applicano le norme sul contratto a tutele crescenti, vi sono casi in cui il licenziamento illegittimo porta comunque alla reintegra. Se il licenziamento approvato dal nostro responsabile risulta nullo in quanto discriminatorio (ad es. per motivi politici, religiosi o di razza) o perché viola altre norme che differiscono ampliamente dai criteri stabiliti dalla legge o ancora perché notificato in forma orale, il datore di lavoro ha l’obbligatorietà di reintegro del dipendente.

Al contempo se il licenziamento manca di giustificazione (recesso per disabilità fisica o psichica del dipendente) o è ritorsivo, oppure avviene in un periodo di tutela del lavoratore o della lavoratrice (ad es. gravidanza), la conseguenza non sarà la mera indennità ma il recupero del posto di lavoro.

Attenzione però, perché se il lavoratore non rioccupa la posizione lavorativa persa entro trenta giorni dall’invito ufficiale dal datore di lavoro, il rapporto si intende risolto. Così stabilisce infatti l’art. 18 dello Statuto.

Oltre al reintegro, il lavoratore ha diritto ad un risarcimento per il danno subito a seguito del licenziamento.

Il lavoratore che rifiuta il reintegro può anche richiedere, entro trenta giorni dall’invito a riprendere servizio, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. La richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Indennità per licenziamento e regole di determinazione dell’importo

Facendo riferimento alle ipotesi in cui il licenziamento è risultato illegittimo, perché non pervenuto per una giusta causa e senza una giustificata motivazione, ai sensi delle norme sul contratto a tutele crescenti generalmente si considera il rapporto di lavoro terminato dal momento del licenziamento – e non vi è possibilità di reintegro.

In questo caso al datore di lavoro viene imposto di pagare un’indennità che oggi può essere da sei a trentasei mensilità, a favore di colui che è stato licenziato.

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.194 del 2018 l’importo dell’indennità viene stabilito con discrezionalità del giudice. Egli comunque non può aumentare o diminuite la somma rispetto i suddetti limiti.

Nel testo della sentenza, in particolare, fu ritenuto incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità, al lavoratore licenziato illegittimamente, fondato solo sull’anzianità di servizio – in quanto contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza ed in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro di cui in Costituzione.

Di fatto il giudice, nell’intervallo in cui va quantificata l’indennità, dovrà considerare dunque non soltanto l’anzianità di servizio ma anche ulteriori criteri come il numero di lavoratori subordinati in azienda o le dimensioni dell’attività economica.

Contratto a tutele crescenti: come funziona oggi

Non per tutti il Jobs Act era uno strumento utile per la tutela dei lavoratori. Per tale motivo sono iniziate una serie di misure volte a trasformare la normativa. Con il Decreto Dignità si è aumentata l’indennità minima e massima che il lavoratore licenziato può ottenere (entro i citati limiti delle sei e trentasei mensilità). La volontà era quella di tutelare in particolare i dipendenti con meno anni di servizio.

Inoltre, la Corte Costituzionale ha affermato che il contratto a tutele crescenti era illegittimo dal momento che presumeva che il solo principio da usare per decidere l’indennità risarcitoria, era il tempo del suo rapporto di lavoro ossia l’anzianità di servizio.

Ad oggi, dal contratto a tutele crescenti è presunto che, a seconda della motivazione per cui licenziamento è illegittimo, al lavoratore possono spettare le seguenti tutele:

  • a seguito del licenziamento dichiarato illegittimo, il lavoratore può richiedere un indennizzo compreso tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità di retribuzione. È a discrezionalità del giudice la decisione dei mesi di risarcimento che spettano al dipendente
  • le regole restano inalterate in caso di licenziamento nullo, discriminatorio o ritorsivo
  • identiche rimangono anche le regole relative al caso di licenziamento disciplinare in cui si evince che la spiegazione data dall’azienda è del tutto incoerente.

Offerta di conciliazione nel contratto a tutele crescenti

Infine, nei casi di licenziamenti disciplinati dalle norme sul contratto a tutele crescenti, ai può essere proposta una conciliazione stragiudiziale in sede protetta. A proporla sarà lo stesso datore di lavoro con lo scopo di evitare il giudizio in tribunale.

Costui potrà quindi concedere un’indennità con assegno circolare, entro 60 giorni dalla comunicazione di licenziamento. Con l’accettazione dell’assegno il rapporto di lavoro termina e il lavoratore rinuncia all’impugnazione dell’atto di recesso datoriale.