Come è ben noto dando un’occhiata alle norme di legge e dei contratti collettivi, un lavoratore che ha firmato un contratto a tempo indeterminato ha diritti e doveri nei confronti del proprio datore di lavoro. Violarli porterebbe a rischiare conseguenze disciplinari ed anche sanzioni molto gravi.
Tra gli obblighi tipici del contratto individuale con un’azienda o datore di lavoro, abbiamo la cd. clausola di stabilità – detta anche patto di stabilità o clausola di durata minima. Si tratta di una clausola oggetto di specifico accordo delle parti, con cui i soggetti si impegnano a non recedere dal contratto per un determinato periodo di tempo.
Di seguito ne parleremo, vedremo insieme perché esiste questa clausola e come, in concreto, funziona.
Indice
Come funziona la clausola di stabilità
Il patto di stabilità non deve rientrare per forza in uno dei punti del contratto. Si tratta di un accordo a se state che, per essere valido, non richiede la forma scritta. Infatti la clausola di stabilità può anche essere oggetto di un accordo informale. Solitamente però è preferibile mettere nero su bianco tale patto di stabilità, con una cd. scrittura privata.
La clausola di stabilità funziona per prestazioni corrispettive perché l’azienda dovrà
- versare un corrispettivo monetario a chi si impegna a restare in ufficio
- attuare un percorso formativo a proprie spese, a favore del lavoratore
In particolare nell’accordo dovrà emergere la data prima della quale il lavoratore non potrà recedere, salvo il caso di giusta causa di dimissioni (cui si contrappone la giusta causa di licenziamento). In caso di recesso anticipato saranno previste conseguenze economiche in capo a coloro che non hanno rispettato i termini del patto stesso.
Quando utilizzare la clausola di stabilità
In quali casi usare il patto di stabilità? Si tratta di una domanda ovvia, se pensiamo al vincolo che viene imposto non tanto all’azienda, quanto al lavoratore che – durante il periodo di applicazione della clausola – potrebbe trovarsi innanzi ad offerte di lavoro molto interessanti. Ma al contempo tale patto è un ‘paracadute’ per il dipendente.
Anzi, il patto di stabilità rappresenta una tutela per entrambe le parti. Si tratta infatti di uno strumento che viene utilizzato soprattutto nei casi in cui un’impresa abbia bisogno di una figura professionale altamente specializzata, e magari difficile da reperire nel mercato del lavoro.
Pensiamo anche a quei casi in cui un lavoratore, magari giovane, sia stato precedentemente formato ed abbia svolto un percorso di apprendistato. Ebbene, in circostanze come queste, l’azienda potrebbe avere interesse a vincolare il proprio lavoratore per un certo periodo di tempo, per assicurarsi le sue prestazioni.
Con la clausola di stabilità, il datore di lavoro ha la certezza di poter usufruire della professionalità del lavoratore per il periodo di tempo concordato, evitando che lo stesso possa recedere dal contratto per un’altra offerta. Basti pensare ad un ingegnere particolarmente abile o esperto: il suo contributo alla realizzazione di un progetto potrebbe rivelarsi essenziale e, grazie all’accordo sulla clausola di stabilità, sarà possibile assicurarsi le sue prestazioni per un determinato lasso di tempo.
Allo stesso modo, dicevamo, anche il dipendente si mette al riparo. Può capitare infatti che egli si trovi nella condizione di accettare un’offerta, per lasciarne un’altra che gli forniva meno sicurezza dal punto di vista economico. Ma, d’altro lato, richiedendo il patto di stabilità, il dipendente sa che non potrà essere licenziato per il periodo concordato.
Clausola di stabilità e lavoro a termine
Una questione pratica attiene alla compatibilità tra questo patto il contratto di lavoro a tempo determinato. Si può stabilire la clausola di stabilità anche ad un rapporto caratterizzato da un termine finale? Ebbene, fughiamo il campo da possibili dubbi, condizione essenziale per questo accordo è che alla base vi sia – sempre – un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Quando è legittimo il recesso
Come per il licenziamento, la cd. giusta causa può intervenire in un rapporto di lavoro caratterizzato dalla presenza della clausola o patto di stabilità, rendendo di fatto legittimo il recesso di una delle parti.
In particolare, esistono due casi in cui è possibile recedere, in maniera legittima, prima della scadenza concordata ossia prima del giorno fino al quale si considera il patto vigente tra le parti:
- la citata giusta causa, ossia un inadempimento di una delle parti, talmente grave, da non consentire la prosecuzione del rapporto (pur con una clausola di questo tipo in essere). Basti pensare ad es. al mancato pagamento degli stipendi, in riferimento al datore di lavoro, oppure al caso della diffamazione dell’azienda da parte del dipendente. In tali circostanze il dipendente può dimettersi o il datore di lavoro può procedere con il licenziamento, al di là della presenza di questo previo accordo
- impossibilità sopravvenuta della prestazione. Si tratta di un’espressione generica che ha a che fare con tutte quelle situazioni in cui motivi “oggettivi” non consentono la prosecuzione del rapporto lavorativo. Per fare un esempio pratico, si può citare il caso del lavoratore che non ha mostrato idoneità per lo svolgimento delle mansioni richieste e di cui al contratto. La situazione, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare a prima vista, può ricorrere anche dopo il raggiungimento dell’accordo in oggetto
Infine ribadiamo che qualora, una delle due parti non dovesse rispettare la clausola di stabilità sarà possibile presentare una domanda di risarcimento.
Infine, sono le parole della Corte di Cassazione – di cui alla sentenza n. 21646 del 2016 – ad essere particolarmente chiare a riguardo:
il lavoratore subordinato, come ha facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro (v. Cass. n. 17010/2014; Cass. n. 17817/2005), così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo minimo di durata.