CEOforLIFE e responsabilità sociale d’impresa: intervista a Giordano Fatali

Giordano Fatali racconta il suo progetto CEOforLIFE: "Non è più il tempo per un'impresa a sé stante rispetto al contesto sociale ed economico che la circonda"

Foto di CEOforLIFE

CEOforLIFE

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CEOforLIFE è la Community che aggrega oltre 100 tra CEO, imprenditori, istituzioni, università, giovani, media etc a testimonianza l'impegno quotidiano dei diversi stakeholder, affinchè si possano realmente produrre beni e servizi che rispondano alle esigenze della persona.

La sostenibilità è un tema sempre più al centro del dibattito attuale, anche nei contesti aziendali: le imprese che scelgono questa come chiave per il loro business – decidendo di investire in strategie di CSR – non si limitano a fare del bene per l’ambiente e la comunità, ma si assicurano anche un vantaggio competitivo ed economico ormai comprovato.

Proprio in questa direzione si muovono i CEOforLIFE Awards, che si terranno (ovviamente online) il 18, 19 e 20 marzo e rappresentano un’ottima occasione per valorizzare, condividere e amplificare le attività e i progetti dei CEO e delle rispettive aziende in prima linea sul tema dell’economia circolare e dello sviluppo sociale.

Abbiamo intervistato Giordano Fatali, fondatore e presidente di Hrc Community nonché promotore di “CEOforLIFE”, il movimento di pensiero e cultura d’impresa che aggrega i CEO attorno ai principi della CSR e della sostenibilità.

Giordano Fatali

CEOforLIFE: quali sono i valori su cui poggia le fondamenta questo network di Amministratori Delegati?
Sotto l’urgenza della realtà, è cambiata la dimensione dell’impegno di chi è al vertice di un’impresa, di un’azienda: il successo, l’affermazione non è più soltanto personale, coinvolge una platea più ampia di co-protagonisti, implica un’unione di sforzi, una effettiva condivisione degli obiettivi, uno scambio di esperienze maturate anche a livelli diversi di responsabilità. L’idea che sta alla base di questa iniziativa poggia su un concetto che il momento attuale ha reso ancora più importante: mi riferisco ad una cultura della Leadership troppo spesso basata sull’egoismo, sulle visioni fuorvianti o comode dell’efficientismo, dei traguardi ad ogni costo, del leader geniale e solitario, proiettato alla conquista ad ogni costo.

Quali devono essere l’obiettivo e le priorità di un CEO in un periodo storico come quello che stiamo vivendo?
A cambiare in questo periodo non sono solo gli obiettivi, ma le caratteristiche stesse della leadership. Per il CEO è tramontato il tempo dell’uomo solo al comando, impegnato in una scalata solitaria al successo. Per raggiungere la vetta c’è bisogno di una cordata, con ruoli e compiti ben definiti, che agisca di concerto, seguendo percorsi stabiliti, costruiti grazie al concorso di diverse esperienze personali. In altre parole, chi è alla guida di un’azienda è chiamato oggi più che mai ad essere inclusivo, flessibile, per poter riorientare il proprio business in maniera rapida in base al mutare delle esigenze e delle condizioni esogene, a valorizzare le competenze, perché il capitale umano rappresenta la vera risorsa strategica di ogni impresa.

In che modo quest’anno di pandemia ha cambiato lo scenario del management italiano?
I manager sono senza dubbio chiamati a gestire il new normal tenendo presente alcuni aspetti: l’importanza e l’affermazione digitale non sono destinate ad essere ridimensionate, ma dovranno trovare un nuovo equilibrio per dare vita ad un’ibridazione a valore aggiunto con la componente fisica; il lavoro agile dovrà assumere delle modalità che consentano di arginare alcuni effetti collaterali, come ad esempio il rischio che vada a perdersi lo spirito di gruppo, vitale per ogni struttura; l’agilità dovrà riguardare non solo il lavoro, ma anche i processi decisionali; e soprattutto, le aziende dovranno essere in grado di accrescere la loro value proposition, mettendosi così nelle condizioni di ripartire anche con maggiore slancio quando le condizioni lo consentiranno.

Parliamo di CSR: non crede che ci sia ad oggi un eccessivo scollamento tra pubblico e privato? In che modo questi due settori potrebbero collaborare per un obiettivo comune?
Non è più il tempo dell’impresa concepita come un corpo a sé stante rispetto al contesto sociale ed economico in cui opera. È tramontata definitivamente l’idea dell’impresa come realtà inerte di fronte ai bisogni anche immateriali di quanti in essa operano direttamente o sono comunque coinvolti. Ciò comporta una responsabilità non solo in quanto genera risorse, ma in quanto agisce nel e sull’ambiente, sulla crescita, sul benessere individuale e del territorio. L’impresa deve farsi carico di tutto ciò, non basta produrre e fare profitto. Proprio perché impegnata in questo percorso, l’impresa non può essere lasciata sola, deve essere supportata da un analogo impegno da parte di quelle istituzioni che non esauriscono il loro ruolo nell’emanare e nel far rispettare disposizioni e regolamenti. Il settore pubblico nel suo complesso, a livello locale e centrale, è chiamato a svolgere un ruolo attivo nella ricerca di un positivo compromesso tra le esigenze normative e regolatorie e la buona pratica, per soddisfare le legittime aspirazioni al benessere e allo sviluppo sociale dei cittadini. Questa collaborazione pubblico-privato in materia di responsabilità sociale delle imprese può trovare nuovo impulso alla luce del piano di rilancio che, in virtù delle risorse messe a disposizione dall’Unione Europea, impegna il Governo del nostro Paese secondo precise direttive che toccano la realtà economica e sociale italiana.

Esistono oggi figure dedicate all’interno delle aziende, o spesso ancora manca un coordinamento lato CSR?
I compiti del CSR Manager non possono essere circoscritti agli strumenti tipicamente associati alla responsabilità sociale, come il bilancio di sostenibilità o il codice etico. La CSR è, piuttosto, una dimensione della strategia d’impresa e chi se svolge un compito molto delicato: quello di posizionare l’azienda nei confronti dei propri stakeholders. Lato CSR, sono fondamentali almeno tre elementi perché possa avere in concreto una valenza strategica per l’impresa: le competenze tecniche per la gestione di alcuni strumenti, lo sviluppo di una vision dell’azienda che sappia cogliere le tendenze attuali in ambito sociale e ambientale, lo scambio continuo, l’interazione e il coinvolgimento di tutti gli attori. Lo sguardo deve essere attento e la capacità di dialogo molto sviluppata.

Dal suo osservatorio privilegiato sulle aziende italiane, quali sono i trend che si delineeranno nei prossimi anni?
La pandemia, che si è innestata su una crisi già in atto, con tutte le conseguenze che comporta e comporterà, si è incaricata di stravolgere i piani di sviluppo delle aziende che operano nel nostro Paese. Si impone per esse una necessità immediata, legata addirittura in molti casi alla sopravvivenza in un mercato che presenta deboli segnali di ripresa. Alcuni settori sono destinati a soffrire ancora per diverso tempo, penso al turismo, una filiera di attività che faticherà a sollevarsi. Questo è solo un esempio di quanto la crisi incide, e continuerà purtroppo a farlo, sullo sviluppo economico con ricadute sul tessuto sociale nazionale. Non amo parlare di resilienza, perché implica il ritorno allo stato pre-esistente, piuttosto mi piace parlare di capacità di fare delle difficoltà un’occasione per ripensare le proprie strategie. Sostenibilità, innovazione, inclusione, superamento del gender gap, nuove forme di welfare, upskilling e reskilling delle risorse umane, sono a mio avviso gli asset su cui le aziende potranno costruire un futuro di crescita per sé stesse e per la società intera.