COP30 a Belém tra polemiche, promesse e un clima sempre più caldo

La COP30, la conferenza Onu sul clima, si apre a Belém tra contraddizioni, sfide ambientali e obiettivi lontani dagli Accordi di Parigi

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Giorgia Bonamoneta

Giornalista

Nata ad Anzio, dopo la laurea in Editoria e Scrittura e un periodo in Belgio, ha iniziato a scrivere di attualità, geopolitica, lavoro e giovani.

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Dal 10 al 21 novembre a Belém, nell’Amazzonia brasiliana, si terrà la COP30, la conferenza Onu sul clima. Si tratta di un evento di conferme, che torna proprio in Brasile, dove tutto è iniziato nel 1992 con la conferenza di Rio de Janeiro. Fu la prima occasione nella quale vennero affrontati in modo globale i temi dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile.

Sarà anche un anno decisivo, perché ci troviamo a 10 anni dall’accordo di Parigi del 2015, firmato da 177 Paesi e che ha rappresentato di fatto il momento più alto della cooperazione globale per il clima. Il 2025 segna un anno complesso, fatto di guerre, multilateralismo che mostra un mondo sempre più diviso, un maggior uso e produzione di elementi che causano gas serra e riscaldamento globale e molto altro. La conferenza di Belém non inizia con le migliori prospettive, ma, come è lecito continuare a voler credere, la speranza è l’ultima a morire.

Cosa vuole fare la COP30?

Da anni la missione della conferenza per il clima, le diverse edizioni della COP, ha come obiettivo quello di superare gli accordi di Parigi. Lo scenario internazionale, però, è molto complesso e, secondo gli esperti, serve un salto di qualità nell’immaginare una comunità internazionale che possa governare un “problema lungo”. I cambiamenti climatici, infatti, ci pongono di fronte alla prospettiva di allungare le politiche nel tempo, mettendo in atto un esercizio collettivo praticamente mai tentato nella storia.

Fu Parigi l’approccio collettivo e la proiezione temporale. Ma l’accordo di Parigi non sta sopravvivendo a se stesso ed è ormai evidente che ogni governo, ogni investitore e anche ogni ente scientifico e non, stia vivendo un momento storico distaccato dagli altri e dai problemi che crede di poter mettere da parte. Siamo di fronte all’inazione climatica.

Qual è quindi l’obiettivo della COP30? Alle delegazioni viene richiesto di esprimersi sull’approccio finanziario alla crisi climatica, come sul Green Climate Fund, sulla Global Environmental Facility e sul Fondo Perdite e Danni. Non sono nuove iniziative, ma iniziative rimandate dalle precedenti edizioni della conferenza.

Si tornerà anche a parlare dell’implementazione del Global Stocktake del 2023 e si proseguirà con i negoziati sullo sviluppo dell’articolo 6 dell’accordo di Parigi.

Il caso Belém

Tiene banco la polemica sulla scelta di Belém come luogo per la conferenza. Il presidente brasiliano Lula da Silva ha scelto la città amazzonica per il messaggio simbolico che ha, cioè la vicinanza all’Amazzonia. Lo ha fatto ignorando quanto richiesto dagli altri Paesi, che evidenziavano tutti i problemi di una città portuale di 1,3 milioni di abitanti, sul limitare della foresta e impreparata ad accogliere oltre 50.000 partecipanti.

La decisione, ormai presa, non è stata influenzata neanche dall’effettiva mancanza di posti letto per i numeri di partecipazione. Negli ultimi anni il governo brasiliano ha investito moltissimi soldi nella creazione di posti letto, dichiarando di averne messi in campo circa 53.000, anche lavorando su ristrutturazioni di scuole e love hotel. Un numero così massiccio di camere in così poco tempo e con l’invito ai cittadini di rinnovare le proprie abitazioni e di metterle in affitto, hanno creato un nuovo problema: il prezzo.

All’inizio molto alto, tanto da far desistere alcune delegazioni a partecipare perché impossibilitate a sostenere i costi solo con la diaria ordinaria e, ormai agli sgoccioli, scoprire che i costi fossero crollati sotto i 50 dolalri a notte, non permettendo a molti di rientrare delle spese di investimento fatte.

A non poter partecipare, sono proprio quei Paesi più poveri e maggiormente colpiti dai cambiamenti climatici, la cui presenza è in realtà fondamentale. Un caos che non avrà solo conseguenze economiche, ma anche un forte impatto ambientale e sociale sulla città di Belém.

Ma il caso non finisce con l’edilizia e si allarga anche agli impegni ambientali dello stesso presidente Lula. È importante pensare al fatto che la scelta della città amazzonica arriva dopo tre appuntamenti in Paesi che basato la loro economia sui combustibili fossili, come la COP27 in Egitto, la COP28 negli Emirati Arabi e la COP29 in Azerbaigian. Un gesto simbolico sì, ma che avviene in un contesto di aumento dei progetti e delle attività estrattive nello stesso bacino amazzonico. Si tratta di una vera e propria contraddizione sia per la politica ambientalista che ha portato alla vittoria Lula da Silva, sia per il fatto che un piano estrattivo è incompatibile con l’obiettivo di contenere il cambiamento climatico.

La prospettiva Europa

Non un buon inizio, e purtroppo non sembra proseguire meglio. Guardando all’Europa, per esempio, questa ha fatto un passo indietro rispetto all’obiettivo di diventare il primo continente green al mondo. La posizione dell’Unione Europea rischia di incidere negativamente sugli accordi internazionali a Belém.

Quali sono i problemi? L’Europa ha deciso di rallentare. Sono stati raggiunti nuovi accordi politici per fissare un obiettivo di taglio delle emissioni del 90% entro il 2040. Sulla carta trova l’accordo della scienza, dice il ministro danese per il clima, ma nella pratica è un taglio delle emissioni nel quale di “ambizione green” non c’è molto.

L’accordo, infatti, modifica la legge europea sul clima adottata nel 2021, che rendeva vincolanti gli impegni dell’accordo di Parigi. Così, dopo il taglio del 55% entro il 2030, si arriva a un obiettivo intermedio del 90% entro il 2040. Si tratta di correzioni definite necessarie per rendere la transizione ecologica “più realistica”, ma di fatto meno incisiva.

Vengono inseriti margini di flessibilità per gli Stati membri che non solo rallentano. Per esempio, come riporta LifeGate:

  • possibilità di utilizzare fino al 5 per cento di crediti di carbonio internazionali, riducendo quindi la quota di tagli “interni” effettivi alle emissioni europee;
  • riconoscimento delle rimozioni di carbonio nel sistema ETS per compensare le emissioni residue;
  • maggiore libertà di manovra tra settori, per evitare squilibri economici nazionali.

Altro segnale di rallentamento è la revisione biennale degli obiettivi, che permetterà alla Commissione, sempre sulla carta, di adeguare la strategia in base ai possibili progressi scientifici, tecnologici e di mercato. Utile, ma potenzialmente in grado di indebolire il vincolo politico per futuri aggiustamenti al ribasso.

La posizione dell’Italia

È vero che l’Europa si presenta compatta, ma anche i singoli Stati danno la loro direzione alla COP30. E come si presenta l’Italia? Tra i grandi assenti, oltre a Donald Trump e a Xi Jinping, mancherà anche Giorgia Meloni. Al suo posto Antonio Tajani, che nomina nucleare, biocarburanti e finanza climatica, oltre al fondo per il clima di oltre 4 miliardi di euro indirizzato a progetti in Africa. Di quel fondo solo un terzo è stato stanziato, il resto è fermo per via di ritardi nell’approvazione dei progetti.

L’Italia, inoltre, ha diversi problemi interni che non discuterà a Belém. Per dire uno: i ritardi nell’attuazione del Pnacc (Piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici). Legambiente ha denunciato che dopo due anni dall’approvazione, il piano di adattamento ai cambiamenti climatici resta ancora solo sulla carta e tutte le misure previste sono ancora da adattare su scala nazionale e regionale. Un ritardo inaccettabile, considerando che dal 2015 al 2025 sono oltre 800 gli eventi meteo estremi che hanno colpito l’Italia, 136 comuni e 18,6 milioni di persone (31,5% della popolazione italiana).

Il ruolo degli Stati Uniti

Per gli Stati Uniti sarebbe meglio dire che il loro ruolo non è pervenuto. Ma invece navigano al contrario, promuovendo il negazionismo e il disimpegno climatico. Un ruolo drammatico sia nel breve che nel lungo periodo. A darne prova è Chris Wright, Segretario dell’Energia degli Stati Uniti d’America.

Rispondendo ad alcune domande di Euronews, ha spiegato che la produzione di gas negli Stati Uniti è più del doppio di quella russa e che sta crescendo ancora. L’obiettivo dell’amministrazione Trump, infatti, è quello di” prosperità in patria e pace all’estero”, e per farlo, dice:

Crediamo che le nazioni ben rifornite di energia abbiano maggiori opportunità economiche e che avere queste partnership energetiche transfrontaliere e transoceaniche porti a relazioni stabili a lungo termine e promuova la pace nel mondo.

No, non parteciperà ai colloqui a Belém e aggiunge che forse lo farà l’anno prossimo. Secondo Wright, gli Stati Uniti hanno ridotto le emissioni di gas serra più di altri, ma il carbone è ancora fondamentale. Il gas naturale, dice, è la combustione più pulita e il cambiamento climatico è un fenomeno naturale, reale, lento e globale, oltre che sopravvalutato per scopi politici.

Il punto di non ritorno è già arrivato?

A discapito di quanto possa dire l’amministrazione Trump e qualche altro negazionista climatico in giro, secondo gli esperti è tempo di passare dalla fase di negoziazione a quella attuativa. Il motivo è semplice: non c’è più tempo. Se l’accordo di Parigi fissava l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 °C rispetto al periodo preindustriale, nel 2023 è stato previsto che questa soglia sarà raggiunta e superata entro il 2030.

Al momento sappiamo che il 2024 è stato l’anno più caldo finora mai registrato, con un aumento della temperatura media globale di +1,6 °C. In teoria i giochi sono fatti, in realtà non ci sono considerazioni affrettate da fare perché è necessario valutare se quanto accaduto nel 2024 sia un valore isolato o se si confermerà nei prossimi anni. Se questo dovesse avvenire, però, si avrebbe conferma di un trend in crescita e potremmo dire di trovarci a tutti gli effetti nel collasso climatico.

L’unico modo per impedirlo è agire collettivamente, come voleva il mondo e i leader che lo rappresentavano nel 2015 con l’accordo di Parigi.