Ucraina, la guerra del grano è finita? Cosa succederà ai prezzi

La Black sea grain initiative viene prolungata e i carichi riprendono dai porti ucraini, ma i cereali si confermano sempre di più un'arma geopolitica. Tutti i dati della guerra del grano

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Le massicce interruzioni di corrente elettrica in Ucraina, provocate dagli incessanti bombardamenti russi, sono solo l’ultimo ostacolo che le esportazioni di grano dell’Est hanno incontrato lungo il loro disastroso cammino degli ultimi mesi. Nonostante da un paio di giorni l’export di cereali sia ripartito da alcuni porti del Mar Nero, di cui due nella martoriata regione di Odessa, la crisi del grano non accenna a esaurirsi.

La mediazione della Turchia nell’accordo sull’export del grano sembrava aver dato una svolta decisiva alla salvaguardia della sicurezza alimentare. La guerra però, tra le altre cose, ha reso estremamente difficile, per non dire impossibile, la semina dei vasti campi ucraini. E ha confermato ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, quanto il cibo sia un’arma geopolitica di primissimo piano. Cosa succederà ora ai prezzi di farinacei e derivati del grano?

Accordo sul grano, a che punto siamo

In una telefonata con Putin, Erdogan ha espresso la speranza che la crisi ucraina venga risolta al più presto. Poco il presidente turco ha chiamato il suo omologo ucraino Zelensky, al quale ha promesso assistenza umanitaria per affrontare il duro inverno, dopo aver parlato di una possibile espansione dell’accordo sul grano. La Turchia conferma così il suo ruolo di mediazione. Ma nelle loro inamovibili posizioni, Mosca e Kiev sono lontane dal tavolo del negoziato, mentre il Cremlino minaccia di sganciarsi dall’intesa sui cereali in risposta agli attacchi ucraini, a partire da quelli contro la flotta russa nel porto di Sebastopoli (già a ottobre Mosca aveva sospeso l’accordo sul grano, come abbiamo spiegato qui).

Meno di un mese fa era giunta la notizia del prolungamento per altri quattro mesi della Black sea grain initiative, l’accordo Onu che ha sbloccato i flussi commerciali dai porti ucraini scaduto il 19 novembre. L’Ucraina da parte sua ha avanzato un appello ufficiale, finora inascoltato, per estendere l’intesa a un anno e per includere il porto di Mykolaiv, altro grande bersaglio dei raid di Mosca.

Cosa succede ai prezzi di grano e cereali

Il “wheat market” sembra riuscire in queste settimane ad attutire i colpi e gli effetti della guerra, con l’inverno che già morde i vasti campi ucraini. La disponibilità di prodotto sembra tutto sommato sufficiente a soddisfare la domanda globale, con però grandi incognite. Prima fra tutte l’import della Cina, ancora alle prese con le drastiche chiusure per Covid.

Sia l’Italia sia l’Europa sono “affamate” di frumento duro ed è probabile che nella stagione 2022-23 aumenteranno le importazioni da Paesi extra-Ue. Le quotazioni dei prezzi appaiono in aumento, ma restano estremamente volatili. E in molte nazioni esportatrici, come il Canada ad esempio, a incidere sul prezzo maggiorato del grano sono soprattutto i costi del trasporto.

E l’Italia?

Dalla firma dell’accordo sul grano raggiunto lo scorso 22 luglio, in Italia sono giunte complessivamente 157mila tonnellate di grano, quasi esclusivamente tenero (5% sul totale partito dai porti ucraini), 624mila tonnellate di mais (14% sul totale) e 46mila tonnellate di olio di girasole (7% sul totale). Il Centro studi Divulga ha analizzato i flussi commerciali registrati dalle Nazioni Unite nel periodo di riferimento sulle rotte dei prodotti agricoli partiti dai porti di Chornomorsk (41,4% del totale), Yuzhny (32,8%) e Odessa (25,9%) negli ultimi quattro mesi.

Sulla base di questi dati si possono ipotizzare anche gli effetti del prolungamento dell’accordo. Ciò che possiamo affermare con ragionevole certezza è che l’assenza dei prodotti agricoli porterà ulteriore squilibrio nei mercati, come sperimentato nei mesi che hanno preceduto l’accordo di luglio. In particolare per i Paesi più dipendenti dalle importazioni dall’Est, specialmente nel sud del Mediterraneo. Italia inclusa, per l’appunto. Oltre che via mare, il grano ucraino arriva alle nostre frontiere anche via terra, per la precisione viaggiando sui rotaie: grazie ai treni merci che collegano Maťovce all’Interporto di Portogruaro, destinati infine ai silos della Cereal Docks.

Le conseguenze della crisi alimentare riguardano però soprattutto l’Africa. Putin è un grande tattico che sa cogliere la palla al balzo e rilanciarla col doppio della forza, e in questo caso la palla è la propaganda. Dopo aver denunciato il fatto che solo il 3-4% del grano esportato raggiunge effettivamente i Paesi più bisognosi, sottintendendo dunque “l’avidità occidentale”, Putin ed Erdogan si sono offerti di inviare il grano gratuitamente agli Stati poveri, perfino attingendo alle proprie scorte nazionali “se necessario” (niente pace, ma grano e gas: cosa prevede l’asse Putin-Erdogan). Conservare un’egemonia in Africa è cruciale per Russia e Turchia, che controllano rispettivamente produzione e trasporto di derrate alimentari. Un’arma geopolitica, in maniera sempre più tragica ed evidente.

Verso quali Paesi viene esportato il grano ucraino

L’Ucraina produce ogni anno oltre il 10% del frumento tenero destinato alla panificazione nel mondo, fondamentale per garantire la sopravvivenza alimentare di oltre 400 milioni di persone soprattutto in Nord Africa e Medio Oriente. In testa alla classifica degli Stati che attingono al granaio ucraino c’è senza dubbio l’Egitto, che ne acquista 3,62 milioni di tonnellate l’anno, mentre il secondo posto va all’Indonesia, con 3,22 milioni di tonnellate annue. Altrettanto dipendenti dalle importazioni del grano dall’Ucraina sono il Bangladesh, con 2,3 milioni di tonnellate, la Turchia a quota 1,19 milioni, mentre lo Yemen ne compra 1,06 milioni e le Filippine 1,02 milioni di tonnellate.

Per quanto riguarda il mais, invece, l’Europa non sembra avere rivali in materia di import. Su 4,4 milioni di tonnellate di prodotto, i porti dell’Ue hanno accolto oltre il 60% del granturco ucraino. Il 30% ha invece raggiunto i porti dell’Asia e il 10% quelli d’Africa. A livello nazionale, la Spagna si aggiudica il 20% di mais partito dai porti ucraini, mentre l’Italia è seconda in questa classifica con il 14% delle esportazioni complessive. Chiude il podio la Cina con l’11%, a seguire Turchia e Olanda col 10%.

Se si considera l’olio di semi di girasole, infine, è ancora una volta l’Asia il principale bacino acquirente, con il 77% del totale prodotto nel Paese invaso dalla Russia (oltre 690mila tonnellate). Segue la “solita” Europa (22%) e Africa (solo l’1%). L’India, in particolare, ha importato il 30% complessivo di olio di girasole ucraino, seguita da Turchia (24%), Cina (12%), Italia (7%) e Romania (6%).

Una storia di grano e sacchi

Diverse fonti segnalano infine un’altra questione: il sequestro coatto di partite di grano, che oggi avviene perlopiù in mare attraverso navi “fantasma” russe (come accade anche per il trasporto di petrolio: ne abbiamo parlato qui). Talvolta con il dirottamento di camion carichi di cereali e vere e proprie rapine. Un fenomeno che nelle terre ucraine, storico granaio di Russia prima che d’Europa, ha radici profonde. Tralasciando la collettivizzazione violenta della produzione agricola sotto il regime di Stalin e il controllo ferreo sotto l’Unione Sovietica nel Dopoguerra, già un secolo fa (e anche prima, molto prima) i campi della Piana Sarmatica rappresentavano una ghiotta occasione di bottino.

A rileggere cosa accadeva nel complicato biennio 1921-22 nella Russia appena uscita dalla Rivoluzione, ci si chiede se la Storia non si sia fermata. Con l’introduzione del monopolio statale della produzione agricola, si registrarono le prime terribili conseguenze: espansione del mercato nero; malcontento dei contadini, ai quali veniva sottratta con la forza gran parte dei raccolti (e laddove venivano pagati, l’inflazione galoppante si mangiava tutto il potere d’acquisto, in un mondo totalmente sprovvisto di manufatti industriali); degradazione dell’agricoltura, impoverita dalla contrazione delle semine; drastico impoverimento demografico; imbarbarimento della società.

In questo scenario apocalittico, il mercato nero e gli “uomini col sacco” (mešočniki) dominavano la misera economia russa durante il comunismo di guerra. Gli speculatori si spingevano fuori città per eludere i controlli delle autorità bolsceviche, ricorrendo a espedienti e trucchi d’ogni sorta, comprese le mazzette ai corruttibili reparti di polizia speciale detti zagraditel’nye otrjadi. Il trasporto e la distribuzione fuorilegge erano diventati talmente capillari e diffusi che il soviet nazionale chiudeva anche tutti e due gli occhi, perché sfamavano città ed esercito. La fame si combatteva anche in questo modo, anche se gli “uomini col sacco” avevano aperto una breccia pericolosa nel sistema di approvvigionamenti del governo, spingendo la popolazione a non consegnare allo Stato le quote dovute.

Oggi le cose sono molto diverse: gli “uomini col sacco” sono piuttosto gli “uomini col camion”, potremmo dire. E più che combattere la fame, la strumentalizzano, la usano per trarne ancora più profitto. Anche oltre confine, facendo leva sulla priorità di rifornire di grano l’Africa e i Paesi poveri e in via di sviluppo. Sempre con un furto alla base e una guerra sullo sfondo che lo rende quasi un male necessario.